enric, monique e gli altri bugiardi.
il pensiero e l’arte, pensavo io, cercano di esplorare ciò che siamo.
Io mi devo scrivere tutto, altrimenti me lo scordo. Devo sottolineare le parti dei libri che mi piacciono, segnare da qualche parte l’impegno più inutile, salvare le canzoni tra i preferiti di Spotify e qualche volta quando trovo pezzi di un film che voglio rivedermi torno indietro per registrarle con il telefono. È perché non mi ricordo mai niente, e qualche volta mi sono odiato per questo. Mi sono odiato perché questo porta a fare del male alle persone, a perdere dei pezzi di loro per strada e a convincerle che le cose che ti dicono qualche volta sono importanti e qualche volta no - e questo è falso, perché tutto è importante sempre. Ma in modo particolare spesso mi sono odiato perché questo terrorizza il positivista che tira le redini del mio cervello: ogni cosa è finalizzata al progresso e non ricordarsi una canzone, una citazione di un libro o il dialogo di un film è un’occasione sprecata per essere più - in ordine sparso - buono, interessante, profondo: migliore, insomma. Una migliore persona, un miglior scrittore, un miglior figlio, un miglior amico, un miglior fidanzato, una migliore compagnia per fumare una sigaretta insieme.
Il mondo non funziona così, e se mai nella vita diventerò una persona, scrittore, figlio, amico, fidanzato o fumatore migliore non è perché avrò scoperto un metodo per ricordarmi tutto ma perché mi sarò ricordato poche cose importanti. Al momento sto facendo di tutto per ricordarmi due cose, che penso proprio siano importanti. La prima l’ho sentita dal signor Bagheri de Il sapore della ciliegia, un film del regista iraniano Abbas Kiarostami. Ne Il sapore della ciliegia c’è un tipo che si vuole ammazzare, e vaga per la periferia di Teheran alla ricerca di qualcuno che lo vada a seppellire la mattina dopo in una buca che lui ha già scavato. In questo girovagare incontra il signor Bagheri, che gli racconta la storia di un turco che va dal dottore perché quando si tocca la testa sente dolore, quando si tocca la pancia sente dolore; uguale quando lo fa con le gambe, le braccia e così via.
Il turco aveva le dita rotte, nient’altro. Bagheri parla delle menti turbate, che sono diverse dalle persone sbagliate. Del modo nel quale si guarda il mondo, che non è il mondo. Parla della prospettiva con la quale si guarda alla vita, di essere ottimista, della morte che dobbiamo saper accogliere ma mai rincorrere. Parla di quando era lui a volersi ammazzare, ma poi si è fermato ad annusare un gelso e tutto è diventato più chiaro. Poi Bagheri inizia a fare delle domande, che sono le domande più importanti del mondo: all'alba non vuoi veder sorgere il sole? Il rosso e il giallo del sole al tramonto non li vuoi vedere più? Non vuoi più vedere le stelle? La notte della luna piena, non ti interessa? Non hai voglia di bere acqua da una sorgente, di nuovo? O lavare il viso in quell'acqua? Dice che ci sono quattro stagioni, e tutte e quattro hanno così tanti frutti da non poterci riempire il frigo più grande del mondo. E poi chiede, di nuovo: tu vuoi rinunciare a tutto questo? Rinunciare al gusto delle ciliegie?
Non le dice solo Bagheri queste cose, e non solamente il cinema di Kiarostami. Le dice anche Trevor Hurd, conosciuto come Crip Mac, un rapper di Los Angeles legato alla gang 55 Neighborhood Crips. Oltre che la sua fedina penale, Crip Mac è anche un ragazzone con un rapporto dolcissimo con sua madre - che chiama mamma orsa -, una vita di merda e una valanga di problemi, alcuni di questi anche psicologici. Crip Mac è stato più volte intervistato da Andrew Callaghan negli anni, e tra i due si è creata una genuina amicizia. In più occasioni Hurd ha lanciato messaggi ai più giovani: “non sarò io a dirvi di non entrare in una gang, sarei ipocrita, ma vi dico di dare un’opportunità ad altre strade. Provate con il basket, il football, magari anche la boxe. Non abbandonate la scuola e cercate di ottenere buoni voti. Trovatevi una vita onesta”. In un’altra occasione Crip Mac va a distribuire della pizza a delle persone che vivono per strada, ma prima di consegnarla si fa promettere una cosa: never commit suicide, non suicidarti mai. Quando lo arrestano per l’ultima volta, in una conversazione al telefono con mamma orsa cita Tupac: “qualunque cosa ti succeda nella vita, non puoi fare altro che accettarla. Come diceva Tupac? ♪ that’s just the way it is ♪. Ti ricordi che lo ascoltavamo insieme, quando ero piccolo?”. La mamma si ricorda.
Io non ho mai avuto pensieri suicidi e verosimilmente non avrò mai i problemi di Crip Mac, ma per nessun motivo al mondo voglio ignorare un gelso se ne incontro uno per la strada o smettere di guardare ai testi di Tupac come delle grandi verità. Questo era il primo pensiero, e scusate se sono andato lungo. Il secondo pensiero è un qualcosa che diceva Spinoza, e che ultimamente è stato incarnato in una maniera commovente dalle cronache dei processi per gli attentati a Parigi del 13 novembre 2015 (Bataclan, Stade de France e i bistrot) fatte da Emmanuel Carrère e uscite in V131. Spinoza e Carrère dicono che non dobbiamo mai deridere, mai compiangere, mai condannare. Spinoza e Carrère dicono che bisogna limitarsi a comprendere. Il fatto di non deridere, non compiangere, non condannare ma comprendere soltanto se messo in pratica diventa una dipendenza, ti trovi presto a provarci e riprovarci ad ogni occasione e soprattutto ad alzare ogni volta l’asticella del male. Questo esercizio sempre imperfetto (nel quale mi scopro spesso e tristemente ad aver deriso, o compianto, o condannato) vuoi applicarlo a casi sempre più difficili: prima un piccolo criminale, poi un assassino, poi un terrorista, poi un nazista, poi poi poi poi.
Tra gli interpreti del male, però, non c’è solo chi ruba, sequestra, tortura e uccide. C’è anche chi trasforma la realtà. E non c’è solo chi trasforma la realtà per tornaconto personale, per arricchirsi, per farla franca. C’è anche chi trasforma la realtà perché il mondo è complicato, più complicato delle ragioni che portano ad una truffa. Le storie di Enric Marco, Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levi, Binjamin Wilkomirski e Misha Defonseca sono storie brutte e difficili da raccontare. Sono storie di bugiardi, vittime mai esistite, ladri e ladre di empatia. Marco, Artale, Wilkomirski e Defonseca sono nati in posti del mondo diversi e hanno condotto vite diverse, salvo un dettaglio che totalizzerà le loro esistenze: ad un certo punto tutti e quattro hanno sentito il bisogno di dire una bugia. Di raccontare che erano sopravvissuti a dei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, anche se non era vero.
Subito dopo che l’inganno del signor Marco venne “scoperto” Teresa Sala, figlia di un deportato spagnolo a Mauthausen - lo stesso campo nel quale raccontava di essere stato Marco -, scrisse una lettera pubblicata sul Paìs dove diceva che “non dovremmo cercare di capire i motivi dell’impostura del signor Marco” e lasciare quell’uomo “a convivere con il suo disonore”. Questo, per fortuna o purtroppo, non è possibile. La lettera di Sala l’ho trovata su L’impostore, il libro che Javier Cercas ha dedicato alla vicenda di Marco. Anche Cercas riflette su quelle parole, e arriva ad una conclusione che mi trova particolarmente d’accordo:
Il pensiero e l’arte, pensavo io, cercano di esplorare ciò che siamo, rivelando la nostra infinita, ambigua e contraddittoria varietà, cartografando così la nostra natura: Shakespeare o Dostoevskij, pensavo io, illuminano i labirinti morali fino ai loro ultimi meandri, dimostrano che l’amore è in grado di condurre all’assassinio o al suicidio e riescono a farci provare compassione per psicopatici e malvagi; è loro dovere, pensavo io, perché il dovere dell’arte (o del pensiero) consiste nel mostrarci la complessità dell’esistenza al fine di renderci più complessi, nell’analizzare come funziona il male, per poterlo evitare, e perfino il bene, forse per poterlo imparare”.2
Nessuno di loro - né Marco, né Artale, né Wilkomirski, né Defonseca - diventò ricco con questa storia. Alcuni di loro erano riusciti a pubblicare dei libri e a tirarci a campare anche dignitosamente, ma può essere questo il motivo che spinge le persone a inventarsi di essere state vittime dell’Olocausto? Norman Finkelstein tra le ragioni che può spingere una persona a fare questo passo dice che sì, c’è anche quella materiale. “Il governo tedesco del dopoguerra pagava risarcimenti agli ebrei che erano stati nei ghetti o nei campi e molti ebrei si costruirono un passato conforme ai requisiti richiesti per quel beneficio”3, scrive l’autore de L’industria dell’Olocausto. Ma possiamo prendere questo punto seriamente? Possiamo dire che anche solo il più arrivista tra i nostri bugiardi lo abbia fatto per i soldi? Se leggiamo la notizia di un qualcuno ucciso per una caramella, pensiamo che l’assassino aveva una voglia matta di caramelle? O che sotto c’è altro?
Mi sono accorto di essere stato finora un pessimo padrone di casa. Non vi ho presentato gli ospiti. Enric Marco era un operaio metalmeccanico di Barcellona che iniziò a mentire e non la smise più. Negli anni della transizione dal franchismo alla democrazia si presentava come un sindacalista oppositore del fascismo spagnolo, arrivando ad essere eletto come segretario dell’ala catalana della Confederación Nacional del Trabajo. Con gli anni capì che la gente ascoltava più volentieri un deportato che un antifascista, così iniziò a presentarsi come deportato: Mauthausen e Flossenbürg, per la precisione. Tutta una cazzata: Enric in Germania c’era stato ma come lavoratore volontario nel contesto degli accordi tra Hitler e Franco del 1941. Lì venne arrestato per propaganda comunista, ma non finì mai in un campo di concentramento. Tutto quello che Enric Marco aveva detto sul suo passato - e che lo portò a diventare presidente dell’associazione dell’Asociación Amical de Mauthausen - era falso.
Quella di Misha Defonseca è la storia di un altro nome: Monique De Wael. Siamo a Etterbeek, dalle parti di Bruxelles, con il paesino occupato dai nazisti. Il padre di Monique è un partigiano belga, poi viene catturato e decide di tradire: nome dopo nome, condanna a morte tutti i suoi amici e compagni. Anche lui e la moglie moriranno per mano dei nazisti, a Sonnenburg lui e Ravensbruck lei. Dopo la guerra Monique per tutti è “la figlia del traditore” e si trasferisce negli Stati Uniti, con gli anni di Etterbeek che fanno ancora male. Il cervello di Monique inizia a inventarsi un passato diverso, nuovo, altrettanto doloroso ma non così umiliante: c’era una volta una bambina ebrea di nome Misha alla quale i nazisti avevano arrestato i genitori, ora in un campo di concentramento. Freud parla di “ricordi di copertura”. Misha inizia un viaggio per tutta Europa - Germania, Jugoslavia, Russia, Italia, Francia, Romania - alla ricerca dei suoi genitori, viaggio nel quale Misha non si fida degli esseri umani e si sente più vicina agli animali che vivono intorno alle città. Su spinta di un editore Monique/Misha - sposata Defonseca - pubblica le sue memorie che prendono il nome di Sopravvivere con i lupi4. Il libro diventa un best seller. La storia di Misha non è mai esistita.
Neppure quella di Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levi. Ingegnere padovano, da anni girava per le scuole venete raccontano della sua esperienza a Auschwitz - dove era addirittura aggregato al Sonderkommando, il gruppo di prigionieri che doveva “bruciare” i corpi degli altri internati uccisi con il gas. Anche Artale ha pubblicato un libro - LaChaim. Ama la vita5. Tutto falso, evidentemente falso: un dettaglio su tutti, l’assurdo fatto che un bambino di 7 anni facesse parte del Sonderkommando. È stato detto che Gaetano, De Wael, Marco e tutti gli altri soffrivano della “sindrome Wilkomirski”, dal nome del più famoso truffatore dell’Olocausto, Binjamin Wilkomirski. La sua storia, quella di un bambino ebreo catturato a Riga e deportato a Majdanek e Auschwitz, è diventata un caso letterario internazionale pubblicata in italiano con il nome Frantumi6. Non solo non era vero, ma non era mai esistito neanche Binjamin Wilkomirski: si chiamava Bruno Dössekker ed era un cittadino svizzero.
La “sindrome Wilkomirski” è una variante del disturbo psichico chiamato “pseudologia fantastica” - mitomania -, sviluppata dall’unione di questo con il “desiderio di essere vittima” e che dà vita al cosiddetto “desiderio di essere ebreo”7. “La vittima è l’eroe del nostro tempo”, scrive Daniele Giglioli. “Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio”8. Era questa l’unica cosa alla quale ambivano i nostri falsari: ascolto, identità, diritto e autostima molto prima che soldi. Dössekker e Artale erano stati abbandonati dai loro genitori e avevano passato la loro infanzia in un orfanotrofio, De Wael era la “figlia del traditore”. Avevano vissuto cose orribili delle quali a nessuno importava niente e che neppure loro sapevano spiegarsi, mentre lì - a portata di mano - c’era la soluzione: essere ebreo.
In mezzo a tutta questa nebbia le figure dei nostri bugiardi iniziano ad essere più nitide. Non sono soli, ce ne sono tanti di più: Jerzy Kosinski, Herman Rosenblat, Luis Marsiglia (nel 2000 si inventò di essere stato aggredito da alcuni naziskin a Verona al grido di “sporco ebreo”), Deli Strummer, Martin Zaidestadt, Antonio Pastor Martinez. Sono in molti, e lo scenario è diverso da un’associazione a delinquere che truffa il governo tedesco per avere i risarcimenti. È più complicato, e questo è tutto quello che ci serve sapere. Tutto quello che abbiamo il diritto di conoscere. Ma noi? Come abbiamo potuto crederlo noi? I loro libri erano pieni di errori storici e imprecisioni, come è possibile che ci siamo cascati? Ci riflette anche Cercas, che nel 2009 pubblicò un articolo sul Paìs che parla di un “ricatto” di un testimone che “ha acquistato un prestigio così smisurato che nessuno si azzarda a mettere in questione la sua autorità”:
Non c’è verso: ogni volta che, in una discussione sulla storia recente, si verifica una discrepanza tra la versione dello storico e la versione del testimone, qualche testimone mette sul piatto l’argomentazione imbattibile: ‘E lei che ne sa, se non c’era?’ Chi c’era – il testimone – possiede la verità dei fatti; chi è arrivato dopo – lo storico – possiede solo frammenti, echi e ombre della verità. Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald, lo ha detto con un esempio: secondo lui, i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti ‘hanno da dire su quello che vi è successo più di tutti gli storici messi insieme’, perché ‘solo coloro che vi passarono sanno cosa fu; gli altri non lo sapranno mai’. Questa, a me sembra, non è un’argomentazione: è il ricatto del testimone.9
Sono contento che Cercas abbia citato Elie Wiesel - come se non fossi io il grande burattinaio in questa baracca -, perché è proprio con lui che voglio finire. In una delle molte interviste che anticiparono l’uscita nelle sale di Il figlio di Saul (regia di László Nemes e Oscar per il miglior film straniero nel 2016), l’attore protagonista Géza Röhrig rivela alla giornalista Anne-Katrin Titze un aneddoto riguardante Elie Weisel, premio Nobel per la Pace nel 1986, e Albert Camus. Röhrig racconta a Titze di quando Wiesel si trovava a Parigi per una conferenza insieme allo scrittore francese, che gli si avvicinò all’orecchio e si lasciò andare in una confessione: “io ti invidio per Auschwitz, Elie”. Chissà se lo pensava anche Enric. Chissà se pensava “io vi invidio per Mauthausen, amici” durante i suoi incontri con gli altri (con i soli) deportati sopravvissuti. Chissà se l’ha pensato almeno una volta, almeno una, almeno mezza, prima di essere scoperto.
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E. Carrère, V13, Adelphi, Milano, 2023.
J. Cercas, L’impostore, Guanda, Milano, 2014.
N. Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Rizzoli, Milano, 2004.
M. Defonseca, Sopravvivere con i lupi, Ponte alle Grazie, Milano, 2008.
S. G. Artale von Belskoj-Levi, LaChaim. Ama la vita, TraccePerLaMeta, Varese, 2019.
B. Wilkomirski, Frantumi. Un'infanzia 1939-1948. Mondadori, Milano, 1996,
A. Costazza, Samuel Gaetano Artale, o della falsa testimonianza della Shoah, joimag.it, 1 luglio 2022. Costazza è anche autore di A. Costazza, Ladri di identità. Dalla falsa testimonianza alla testimonianza come finzione nella letteratura tedesca della Shoah, Mimesis Edizioni, Milano, 2019.
D. Giglioli, Critica della vittima, nottetempo, Milano, 2014.
J. Cercas, El chantaje del testigo, elpais.com, 26 dicembre 2010.
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