se fossi presidente.
storia dell'unico presidente statunitense buono (quello senza cappotto)
Le questioni principali sono due: una riguarda quel sottile filo sul quale la democrazia statunitense sta facendo dei backflip atterrando su un piede solo, l’altra Mondo Marcio. Entrambe hanno riempito le mie ultime settimane, dando vita ad una coabitazione di pensieri tipica del nostro tempo - un tempo dove i mostri banchettano nella sala più lussureggiante del Palazzo dell’Assurdo. A queste ci sono arrivato percorrendo due strade parallele che non dovrebbero mai incontrarsi, ma sono come i calabroni: anche se le dimensioni del corpo impedirebbero loro di poter volare, loro non lo sanno e volano lo stesso. Ho scoperto che secondo la s c i e n z a questa convinzione popolare così affascinante è falsa - noi, che preferiamo da sempre una storia ad una verità rispondiamo: venite a dircelo in faccia se avete il coraggio, imbecilli.
Negli ultimi giorno mi sto riascoltando la discografia di Mondo Marcio, una cosa che non facevo da quando ero un ragazzino. Posso dire che è stato un bel viaggio, anche se deve ancora finire. Scendendo più nel dettaglio, posso dire che è un Interrail con i tuoi migliori amici quando hai 19 anni: un minuto sei grato per avere l’opportunità di condividere questa fantastica esperienza con i tuoi fratelli, il minuto dopo preferiresti morire piuttosto che condividere l’universo con imbecilli del genere - e, onestamente, la frequenza con la quale vi lavate i denti è inaccettabile per un paese del G7. Tornando a Mondo Marcio: qualcosa si digerisce meglio, qualcosa peggio. Tieni duro e Non so volare rimangono dei capolavori, mentre altri sono invecchiati decisamente male sia a livello artistico che a livello di cosa è o non è accettabile scrivere - in Fuori di qua, ottava traccia dell’omonimo disco, si parla del drogare i cocktail delle tipe in discoteca, tanto per fare un esempio.
Mondo Marcio, come altri mostri sacri del suo tempo, per una generazione e dintorni ha rappresentato anche la scoperta di un mondo nuovo. Lo ha spiegato bene Tommaso Naccari in una puntata del suo Paper Boi sul feat con Fibra in Abbi Fede. Anche questo è un pezzo in Fuori di qua, disco del 2004 riproposto nel 2022, che quando uscì era una roba molto strana perché “per la strofa c'è il Fibra, Mondo Marcio fa il beat”. “Voglio molto bene ad Abbi Fede”, scrive Naccari, “da quando è uscita la sto riascoltando in loop, perché è letteralmente una Madeleine, un pezzo che mi riporta a precise situazioni, un pezzo che mi ha spinto a capire, appunto, come fosse possibile che in un brano di un cantante, quello stesso cantante (o rapper) non cantasse. Che mi ha portato a scoprire cosa volesse dire che ti fai. Mi manca molto la curiosità derivata dall’incomprensione, una cosa che oggi accade di rado, per forza di cose.”
Uno dei momenti più interessanti di questo viaggio è stato quello nel quale sono (ri)passato da quella che forse è la canzone più brutta di Marcio. La conoscevo già, da ragazzino ci ero andato anche mezzo in fissa, ora ho fatto fatica ad arrivare alla fine. Si chiama Se fossi presidente, ed è tipo If I Ruled the World (Imagine That) di Nas se If I Ruled the World (Imagine That) di Nas fosse una merda inascoltabile. Oltre all’irreversable unchiavable (cit.) ritornello “vota Mondo Marcio”, il testo è scritto da un ragazzino di 14 anni. Per farvi capire, se non avete il coraggio di premere play su Spotify:
Se fossi Presidente ognuno avrebbe ciò che vuole
Non dovresti più stare a aspettare in coda cinque ore
Se fossi Presidente, l'erba sarebbe legale
E così come puoi ubriacarti, potresti fumare (Ehi)
Se fossi Presidente, aprirei le case chiuse
Potresti spassartela con due bionde o con due brune (Ahah)
Se fossi io al comando, non andremmo in guerra
A giocare a fare l'A-Team come Mister-T e Sberla (Eh)
Se fossi Presidente, cambierei le regole
E avrei come miei vice un nero, un gay e due assistenti lesbiche (Ahah)
Il punto, però, non è la canzone. Il punto è che l’avevo riascoltata, dopo anni che non sfiorava neanche l’anticamera del mio cervello, poco prima che un incrocio tra Lee Harvey Oswald e Sheldon Cooper sparasse e mancasse di un pelo l’ex presidente e candidato presidente statunitense Donald Trump. Ora, devo fare una premessa: quando ho deciso di scrivere di Donald Trump che quasi si prende una pallottola in faccia - tipo due settimane fa - questo era un tema cool. Due settimane dopo non lo è più, ci siamo praticamente già scordati dell’attentato a Trump e sono successe una valanga di cose che hanno monopolizzato la nostra attenzione: Biden si è ritirato, Kamala Harris ha preso il suo posto, ci sono stati i minions alla sfilata delle Olimpiadi, ci sono stati i gay alla sfilata delle Olimpiadi, ci sono state le Olimpiadi. What a Week, Huh? Ad ogni modo, io sono a digestione lenta e sono ancora bloccato lì.
Nonostante quello di Thomas Crooks sia stato il tentato assassinio più noioso della storia - Crooks è un killer di zero spessore narrativo, che si è letteralmente steso in un punto dove tutti potevano vederlo - e con degli antagonisti incredibilmente inefficaci - tra il primo avvistamento da parte delle forze di sicurezza e l’abbattimento di Crooks sono passati 90 minuti secondo quanto emerso. Gli unici due elementi che rendono questa storia meritevole di essere raccontata sono due: la reazione di Trump e la maniera nella quale noi processiamo la contemporaneità.
Partendo dalla seconda, è ormai chiaro come la realtà assuma un senso ai nostri occhi solo quando ci ricordi qualcosa che è già successo. Se la discesa in politica di Trump e la sua elezione a presidente degli Stati Uniti sono stati un qualcosa di indecifrabile per noi - e tanti, ancora oggi, fanno fatica a capacitarsi che l’ex conduttore di The Apprentice abbia avuto e (probabilmente) avrà di nuovo tra le sue mani il grande bottone rosso che aziona l’uso delle armi nucleari -, il fatto che qualcuno voglia ammazzarlo non ha stupito nessuno. Questo non solo perché Trump è (co)responsabile di una divisione politica della società statunitense che necessariamente porta con sé il rischio di trasformare qualcuno in un killer (soprattutto se questo qualcuno può comprare le carabine da Walmart), ma perché l’omicidio del presidente degli Stati Uniti è un qualcosa scritto nel nostro alfabeto.
Prima di Thomas Crooks c’è stato Richard Lawrence con Andrew Jackson nel 1835, Giuseppe Zangara e Franklin D. Roosevelt nel 1933, Oscar Collazo e Griselio Torresola che attaccarono Harry S. Truman nel 1950, Richard Pavlick che pianificò di uccidere John F. Kennedy nel 1960, Samuel Byck che tentò di dirottare un aereo per colpire Richard Nixon nel 1974, Lynette Fromme che provò a sparare a Gerald Ford nel 1975, Sara Jane Moore a Gerald Ford nel 1975, Raymond Lee Harvey e Osvaldo Ortiz che pianificarono l’uccisione Jimmy Carter nel 1979 e John Hinckley Jr. che sparò a Ronald Reagan nel 1981. Ma soprattutto ci sono stati John Wilkes Booth, Charles J. Guiteau, Leon Czolgosz e Lee Harvey Oswald. E con loro Abraham Lincoln, James A. Garfield, William McKinley e John F. Kennedy.
È come il ritiro statunitense da Kabul del 2021, che assumeva il proprio senso solo se presentato insieme all’elicottero che evacua da Saigon nel 1975. O Putin, che è Hitler. O il genocidio palestinese, che è l’Olocausto. O l’alleanza dei partiti di sinistra e centrosinistra in Francia per arginare l’avanzata di Le Pen e fascisteria varia, che è il Fronte Popolare del 1936. È il passato la lingua che parliamo, e tutto va bene - anche una pallottola nella testa di un presidente - se è la riproposizione di un qualcosa già successo. Se abbiamo degli schemi da applicare. Questo distrugge certamente la complessità delle cose, che non sono mai una riproduzione ma un prodotto genuino ed originale del proprio tempo, ma almeno ci rassicura: queste cose sono già successe, e ne siamo già usciti. Non è la fine del mondo, almeno oggi. Domani si vedrà.
Oltre a ciò, dobbiamo per forza parlare di Trump che dopo essere sopravvissuto ad un proiettile in faccia cristallizza quell’istante con un pugno in alto che è già nei manuali di storia. Da uomo di spettacolo quale è, Trump non ha perso un secondo, si è divincolato dai tipi che stavano cercando di salvargli la vita e si è lanciato in una straordinaria posa per i fotografi: lui, con la faccia insanguinata ed il pugno vittorioso, che emerge dal servizio di sicurezza. Raising the Flag on Iwo Jima, ma lui stesso è la bandiera, le truppe e la terra conquistata. Lui è tutto, in un’accuratissima riproduzione del percorso di Trump nel Partito Repubblicano. È mentre guardavo questa foto che ho ripensato a Mondo Marcio, a Se fossi presidente traccia numero undici di Animale In Gabbia, a cosa farei io se fossi presidente, a cosa farei io se fossi presidente e mi sparassero, se anche io alzerei il pugno o se, più semplicemente, guarderei in camera facendo questo gesto per far capire che non è una false flag:
Ci ho pensato a lungo, poi ho deciso: non farei niente di tutto ciò. Non ci arriverei neanche a quel palco, alla mia seconda campagna elettorale, all’inesauribile brama di potere. Morirei prima, molto prima. Mi farei fare presidente, giurerei con la mano su L’evoluzione della bellezza di Richard Prum (Adelphi, 2020), mi farei fare una foto col vestito buono, e poi regalerei alla mia gente - alla gente che mi ha eletto - una morte che ti fa pensare che questo era un coglione veramente. Non sarei di certo Trump, che si è presentato come il nuovo Gengis Khan solo per aver avuto il culo di muovere la mascella di una frazione di centimetro l’attimo prima che di lì ci passasse il pensierino di un AR-15. Ma non sarei stato neanche J. F. Kennedy, a dirla tutta. Non sarei morto da martire, non mi sarei fatto saltare le cervella accanto a mia moglie. Sarei morto come William Henry Harrison, piuttosto.
Durante la campagna elettorale del 1840 Harrison decise di puntare tutte le sue carte sul fatto che lui fosse un vero uomo, e il suo avversario no. Martin Van Buren, il suo avversario e il presidente che lo aveva preceduto, era accusato di aver installato nella Casa Bianca una vasca da bagno - è universalmente riconosciuto che gli uomini si lavano in piedi. Per alcuni storici e analisti Harrison è stato il primo populista della storia, analisi che va integrata con la convinzione che Harrison fosse anche un cretino. Durante il giuramento c’era un tempo da cani, un umido incredibile ed un ghiaccio che ti entrava nelle ossa. Ma se Harrison non si lavava orizzontalmente, figuriamoci mettersi un giacchetto. Pronuncia il discorso più lungo della storia - quasi due ore, quello di Biden nel 2021 è durato ventuno minuti - e lo fa da vero uomo: in camicia. Qualche giorno dopo si concede una bella passeggiata in mezzo alla gente. C’era un temporale e, ovviamente, nessuna giacca. William Henry Harrison muore pochi giorni dopo, stroncato da una polmonite. Secondo recenti studi questa situazione fu ulteriormente aggravata da una febbre tifoide. Insomma, giurò come presidente il 4 marzo e morì il 4 aprile. Non ebbe il tempo di dimostrare niente da presidente, se non che mettersi il giacchetto è da perdenti.
Mi viene in mente L’archivio dei danni collaterali (Hopefulmonster Editore, 2023) dello scrittore iracheno Sinan Antoon. Mi viene in mente di quando parla del proverbio nigeriano che dice “fino a quando i leoni non avranno i propri storici, i racconti di caccia glorificheranno sempre il cacciatore”. È bello e vero, ma possiamo fare di più. “Che ne sarà della storia delle vittime?”, si chiede Antoon.
Anzi, per dirla tutta, delle vittime delle vittime? È questo che mi affligge. La prima volta che ho letto il proverbio ho provato empatia verso il leone, ovviamente. Ho poi riflettutto a lungo sulla questione e il mio pensiero è cambiato perché mi sono reso conto, anzi mi sono proprio ricordato, che avrei dovuto sentirmi piuttosto affine alla vittima del leone. Ho così immaginato, anzi ho proprio sentito di vestire i panni della gazzella (o di qualunque altra preda) in quella equazione: del resto io le somigliavo proprio come lei somigliava a me. […] Io sono la preda della preda.
E quale è la preda più ambita del bosco, se non quella che cade nella trappola più stupida? Non quella troppo lenta, quella che si sacrifica per i propri cuccioli, quella che non trova il riparo per la notte adatto. La storia di come muore Harrison è più interessante di quella di come sopravvive Trump o di come muore Kennedy perché di solito la gente non sfiora i proiettili, o si fa saltare la testa su una decappottabile. La gente, piuttosto, lascia i cappotti a casa e poi prende la polmonite. Che è un po’ quello che farei anche io, se fossi presidente.
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