A immaginarselo, il mondo di domani. Il mondo tra cinque, o dieci o venti anni. Chissà che profumo avrà, che facce ci saranno al telegiornale, che filtri incredibili su Instagram. Chissà se il Livorno lo compra uno sceicco e annunciano Jude Bellingham e lui in conferenza stampa dice, con la voce tremante per l’emozione, che indossare la maglia con il numero 7 un tempo di Luca Belingheri è un sogno che aveva fin da piccolo (in questa deformazione della realtà Bellingham soffriva di coliche da piccolo, e le uniche cosa che riuscivano a calmarlo erano i bacini sulla fronte della sua mamma e la maniera nella quale Belingheri ordinava il centrocampo nel Livorno di Carmine Gautieri). Chissà quanto sarà bello trovare gli occhi tuoi, tra cinque o dieci o venti o cento anni.
Chissà di cosa sarà composto il mix letale di medicinali che Elon Musk inghiottirà avidamente prima di andare a letto e lo porterà a morire affogato nel suo vomito, nel mondo di domani. Chissà che melodia canteranno i passerotti quel giorno, e quanto riscalderanno i dolci raggi del sole. Chissà che uomo sarò io, tra cinque o dieci o venti anni. Chissà se il mondo mi cambierà, o continuerò a farmi la ninna canna. Chissà se morirò bestemmiando nel fango della periferia di Kiev inquadrato contro la mia volontà nel Quinto Reggimento Emmanuel Macron, mentre chiedo a uno con Hitler tatuato sulla schiena - insieme al quale sto difendendo la democrazia - se mi passa l’ultima sigaretta che i miei polmoni assaggeranno mai, o se invece verrò polverizzato da un raggio laser perché Joshua Wong un giorno si sveglia e dice che la mamma di Xi Jinping è una stronza. Chissà quanto sarà alto l’albero-Daniele Capezzone nel Giardino dell’Odio e della Discordia, un’oasi in mezzo al mio cuore nella quale la vegetazione cresce rigogliosa grazie alla rabbia che mi scorre nelle vene.
Le parole, poi. Chissà che suono avranno le parole, che significato le accompagnerà. Chissà se pioggia significherà ancora che devo prendere l’ombrello per uscire di casa, o se invece sarà il segno che dobbiamo salire ai piani superiori della palazzina. Chissà cosa vorrà dire scuola, e poi estate, e poi Europa. Chissà cosa vorranno dire parole con le quali ci siamo riempiti la bocca a sproposito, fino a farle diventare vuote: cosa sarà chi sarà un popolo, cosa predicherà chi si schiererà dalla parte della libertà, cosa mangerà chi ordinerà uno smash burger. Chissà, per finire, come guarderemo alle parole del secolo scorso e allo scempio che ne stiamo facendo.
Ci penso da tempo a questa cosa, da quando eravamo dei ragazzini e andavamo alle manifestazioni studentesche e urlavamo ai vigili urbani che erano dei fascisti. Col senno di poi, mi sento di dire che quel 55enne sovrappeso fosse semplicemente un uomo senza alcun talento e aspirazione se non quella di aprire un mutuo grazie al posto in Comune, più che un cavaliere al servizio del Lebensraum. A 17 anni, durante un incontro con un’associazione giovanile che si occupava di “avvicinare i giovani alla politica” (probabilmente l’espressione più fastidiosa della storia dell’uomo che parla), mi definii un “massimalista che guarda con interesse all’esperienza bolscevica”. Ripensarci adesso è francamente imbarazzante, anche se non ho ancora deciso se ero un coglione o un genio. L’unica cosa che conta, ad ogni modo, è che non era vero: riprendevo parole affascianti ma di un’epoca lontana, firmando - di fatto - un falso storico. Io, penso tra me e me per giustificarmi, avevo diciassette anni. Claudio Cerasa quarantadue.
Nella vita cerco di parlare il meno possibile di Claudio Cerasa, Il Foglio - il giornale che dirige - e tutto quello che rappresenta, per una serie di motivi. In primis, non sono bravo a gestire stati di agitazione e non posso permettermi un avvocato dato che il mese scorso ho comprato un divano e I'm never going to financially recover from this. In secondo luogo, meno ci penso e meglio sto. Nonostante tutto quello che io sappia su questa roba chiamata giornale lo sappia contro la mia volontà, un po’ come per il caso Sangiuliano-Boccia o Friends, è un qualcosa con il quale si deve venire a patti nella vita: Il Foglio esiste, la gente ci scrive, la gente lo legge e tutto questo succede mentre ha iniziato a fare buio alle 16:30. Mentalmente sono il fenicottero mascotte del Cagliari che va a chiedere scusa tristissimo alla tifoseria dopo aver preso 4 pere dal Napoli in casa.
Oggi, purtroppo, è difficile non parlare di Cerasa e delle cose che pensa e che scrive e delle parole che ruba dal secolo scorso. Cerasa è tristemente tornato rilevante un paio di settimane fa, parlando dei fatti di Amsterdam. Qui alcuni tifosi della squadra del Maccabi Tel Aviv erano in trasferta contro la squadra locale, e pensavano di essere a casa loro: hanno cantato canzoni orribili, strappato bandiere in solidarietà con il popolo palestinese e infastidito (e aggredito) persone arabe o di origine araba. In un meccanismo di azione-reazione a mio avviso legittimo e intellettualmente onesto, hanno ricevuto in cambio tutti gli schiaffi del mondo. Cerasa, per descrivere questa dinamica, ha parlato di “pogrom”, “caccia all’ebreo” e “notte dei cristalli”: “il ritorno di un mondo all’interno del quale l’antisemitismo non è solo tollerato, ma è celebrato, incoraggiato e trasformato in una scelta doverosa per chiunque voglia aderire con gioia alla seducente piattaforma dell’Intifada globale”. Se vi volete fare del male potete leggere l’articolo qui, è caricato su Internet Archive quindi non vale come apertura della pagina per loro.
Verrebbe facile dire che Cerasa dice cose false e pericolose, oltre che estremamente irrispettose verso tutti gli ebrei e le ebree perseguitate e sterminate per l’odio antisemita (tra i quali mio nonno, soprannominato “il trapano” direttamente dal padre di Elio Toaff - suo vicino di casa - per via della promiscuità adolescenziale e che riuscì a salvarsi da un campo di smistamento solo grazie ad un incendio). Se scaviamo sotto il fastidio che provocano quelle parole, la sensazione di ingiustizia che lasciano addosso ed il puzzo di piscio che emettono, c’è un qualcosa di finalmente genuino: l’incapacità di spiegare con parole contemporanee una situazione contemporanea, dalla quale deriva la necessità - e, forse, l’inevitabilità - di un uso politico della storia del Novecento per spiegare una complessità altrimenti inspiegabile. In Europa, oggi, a ricevere il bollettino quotidiano del genocidio in corso a Gaza c’è una segmento della società nuovo, nato e cresciuto ad Amsterdam ma che al telefono parla arabo con l’accento di Fes, o Qafsah, o chissà quale altra città nordafricana. Un segmento che non sente alcun tipo di “colpa collettiva”, ma che anzi quando scende in piazza per la Palestina è in grado di “sentire” la questione su un piano quasi personale e mandare in pensione l’aspetto ideologico, quello che portava nelle strade cori ormai oggetti da museo come “Palestina libera, Palestina rossa”. Questi segmenti all’interno della società europea sono recenti, nuovi, parlano di cose nuove con un linguaggio nuovo e un modo di muoversi nuovo. Fernando d’Amelio in una più ampia riflessione su Il Mulino centra, a mio (e ironicamente non a suo) avviso, il punto:
Si può ritenere che il richiamo di Auschwitz non possa più essere adoperato proprio perché le società si sono evolute e pluralizzate, perché l’esperienza storica è fondamentalmente individuale o al massimo di tante micro-comunità che si autorappresentano a partire dalle proprie differenze, vere o presunte, con la parte considerata maggioritaria. In una simile condizione, Auschwitz non avrebbe più senso, proprio perché non solo distante temporalmente ma anche perché il rifiuto di condividere quella storia sarebbe considerato un atto di giustizia nei confronti dei nuovi arrivati (“la colpa è vostra non mia”). Chi parte da questo punto di vista pensa che siamo ormai di fronte a una “feticizzazione” dell’Olocausto, finalizzata a nascondere la nascita e le politiche di Israele, ultima operazione del colonialismo europeo.
Non voglio giocare la parte della bella addormentata nel bosco, non voglio dire che Cerasa (o chi per lui) parla di “pogrom” o “caccia all’ebreo” perché confuso da questo mondo nuovo dove capita che gli europei non siano bianchi, voglio dire che Cerasa (o chi per lui) si stia aggrappando con le unghie e con i denti ad un mondo che non esiste più: quello catturato dalla foto del soldato israeliano che beve un bicchiere d’acqua dal fiume Giordano subito dopo la fine della guerra dei Sei giorni, con il tatuaggio di Auschwitz che sbuca da sotto la manica della divisa. Quel mondo basato sulla legittimizzazione di Israele grazie a quella “industria dell’Olocausto” della quale parla Norman G. Finkelstein nell’omonimo libro (Rizzoli, 2004), ovvero “una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe”. Non è un caso che il 7 ottobre sia stato definito fin dall’inizio come “il più grande massacro di ebrei dall’Olocausto”, che Isaac Herzog parli di presunte copie del Mein Kampf trovate nei rifugi di Hamas, che si parli di pogrom per gli schiaffi presi dagli ebeti del Maccabi e così via.
Mentre i governi israeliani, in particolare quelli guidati da Netanyahu, che nella storia recente hanno avuto l’opportunità di governare praticamente indisturbati e plasmare la società civile sotto di loro, non sembrano essere toccati da alcune conseguenze della fine dell’Olocausto come tabù nella società europea (tutti i wannabe Mussolini premiati dalle elezioni in giro per l’Europa, e che si rifanno all’eredità - culturale molto più che politica - di gente che letteralmente metteva gli ebrei sui treni, hanno ottimi rapporti con il giro di Netanyahu), le spinte dal basso preoccupano e non poco Tel Aviv. L’asso nella manica, sempre meno efficace ad ogni utilizzo, è quindi come al solito la sovrapposizione tra israeliani ed ebrei e la vittimizzazione di questi in quanto storicamente vittime dell’Olocausto. L’israeliano diciottenne tifoso del Maccabi con il bisnonno yemenita che prende uno schiaffo da un olandese di origine marocchina diventa, nemmeno fosse Arturo Brachetti, Anna Frank.
Il novecento come reazione ad un mondo che cambia, quindi, o come truffa, come falsificazione della realtà. Ma anche altro, come chiave di lettura ad esempio. O come campo di battaglia, al centro di un eterno conflitto per accaparrarsi la narrazione più efficace e quindi dominante. Tra le macerie di Gaza troviamo ogni sfumatura dell’uso politico della storia. È interessante, ad esempio, riflettere su come da quando nella discussione su ciò che sta succedendo in Palestina è entrata la parola con la G, g e n o c i d i o, entrambi gli schieramenti in gioco abbiano fatto sempre e solo parallelismi con l’Olocausto, che non è il genocidio ma un genocidio: quello degli ebrei d’Europa negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso. Il perché è facile e comprensibile, ma non tutte le cose facili e comprensibili sono anche giuste.
Dal punto di vista filo-palestinese, rifarsi all’Olocausto è la maniera più efficace di drammatizzare le operazioni militari israeliane: quello degli ebrei d’Europa è il dramma assoluto, senza paragoni in contesti come quello europeo e statunitense, ovvero le aree geografiche da dove arrivano maggiori aiuti economici e militari per Tel Aviv. Parlare di ciò, dire che quello che è stato fatto da Hitler si sta replicando per mano di Netanyahu, significa portare la situazione sul livello di urgenza e gravità più alto possibile. Inoltre, gioca su un paradosso ed espediente narrativo al quale è difficile resistere: la preda che diventa carnefice. In questa lettura Israele, lo stato che trova parte della sua legittimità politico-ideologica nel pensiero sionista di Herzl, che già alla fine dell’Ottocento dichiarava - a ragione - l’Europa un luogo non più sicuro per gli ebrei e promuoveva la nascita di uno stato ebraico in Palestina, sta di fatto replicando con i palestinesi ciò che gli ebrei avevano subito.
A rendere la lettura ancora più d’impatto, c’è anche il fatto che la stragrande maggioranza degli esponenti di spicco dell’attuale governo israeliano sia di discendenze europee e i propri familiari abbiano subito sulla propria pelle il dramma dell’Olocausto: Yoav Gallant (Difesa fino a inizio mese) è polacco, Israel Katz (Difesa da inizio mese, prima Esteri e Infrastrutture) romeno, Gideon Sa’ar (Esteri) ucraino, Orit Strook (Insediamenti) ungherese, e lo stesso Netanyahu ha origini lituane, bielorusse e polacche. Tra i più importanti, solo Itamar Ben-Gvir (Sicurezza Nazionale) non è europeo: curdo iracheno. Questo è alla base anche della contro-narrazione filo-israeliana, che vede impraticabile l’associazione della parola con la G, una parola per la quale il popolo ebraico ha sofferto immensamente, alle mani fatate delle IDF. Ne parla la storica israeliana Idith Zerthal nel suo Israel’s Holocaust and the Politics of Nationhood (Cambridge UP, 2005), quando dice che
Non c'è stata una guerra in Israele […] che non sia stata percepita, definita e concettualizzata nei termini dell'Olocausto. Questo approccio, che inizialmente, più di mezzo secolo fa, era mirato e relativamente funzionale – volto a costruire il potere israeliano e la coscienza di tale potere a partire dalla totale impotenza ebraica – è diventato col tempo, man mano che la situazione storica israeliana si allontanava temporalmente e contestualmente dall'Olocausto, un cliché piuttosto svalutato. Auschwitz – come incarnazione del male totale e ultimo – è stato e continua a essere evocato per questioni militari e di sicurezza, oltre che per dilemmi politici che la società israeliana ha rifiutato di affrontare, risolvere e pagare il prezzo necessario. In tal modo, Israele si è trasformato in una zona crepuscolare astorica e apolitica, dove Auschwitz non è un evento del passato, ma una minaccia presente e una costante possibilità.
Questa dimensione non solo ha completamente pervaso la narrazione del conflitto portata avanti dalla destra non (abbastanza) nazista in Europa e negli Stati Uniti, ma ha anche fritto il cervello all’intera società civile di paesi come la Germania, dove Angela Merkel nel 2008 definiva l’esistenza dello Stato d’Israele una ragione di stato (Staatsräson) per i tedeschi e uno dei risultati del processo di elaborazione del nazismo è stata quella di dare vita ad un movimento antifascista incapace di criticare Israele perché incapace di distinguere gli ebrei degli anni ‘30 dagli israeliani del 2024. Questo è stato portato avanti anche da realtà che si erano imposte come beniamine dell’antifascismo europeo, ad esempio i gruppi organizzati delle squadre di calcio St. Pauli o Werder Brema. Prendiamo un caso di studio:

Se devo dare la mia opinione (e immagino voi siate interessati, dato che siete arrivato fin qui a leggere), entrambe le posizioni sono sbagliate - con la piccola differenza che da una parte si usa un genocidio subito dal proprio popolo per giustificare il genocidio verso un altro popolo, dall’altra si porta avanti un parallelismo storico che non mi trova pienamente d’accordo. L’Olocausto è stato l’Olocausto, ed il suo utilizzo come chiave di lettura per il genocidio del popolo palestinese è - come abbiamo visto - una irresistibile suggestione narrativa più che un valido esercizio di analisi del presente. Così irresistibile che oscura altri parallelismi, altri genocidi, che potrebbero aiutarci con più efficacia ad imparare quelle lezioni dalla storia che, in una maniera che dice tanto dei tempi nei quali stiamo vivendo, sembriamo inseguire costantemente. La doppia dinamica di genocidio negato, o perlomeno ignorato, e memoria del genocidio strumentalizzato, fino a farlo diventare un arma, ha tanti aspetti in comune con il precedente ruandese, quando dall’aprile al luglio 1994 l’etnia Hutu ammazzò più di mezzo milione di persone etnicamente Tutsi, o Hutu moderati.
Dopo tanto tempo ho riletto Samantha Power, attualmente amministratrice dell'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale e per qualche tempo sotto Obama rappresentante alle Nazioni Unite. Reputata una delle massime esperte mondiali in materia di genocidi, con sorpresa di nessuno Power dall’ottobre dello scorso anno ha deciso di rinchiudersi in un assordante silenzio e perdere completamente la faccia e la reputazione che si era costruita con i suoi lavori sul genocidio del Ruanda negli anni ‘90, culminato con la vittoria del Premio Pulitzer per il suo Voci dall'inferno. L'America e l'era del genocidio (Dalai Editore, 2004). Se non avete voglia di leggere un libro intero di una kissingeriana (understandable have a nice day), vi consiglio il lungo articolo uscito ne 2001 per The Atlantic e intitolato Bystanders to Genocide. Qui Power parla della volontà dell’amministrazione Clinton di rigettare la parola stessa “genocidio” per quello che stava succedendo in Ruanda, perché quando riconosci un genocidio non hai altra scelta di intervenire per fermare un genocidio.
“Nelle prime tre settimane di genocidio, i più influenti politici statunitensi dipingevano le morti non come atrocità o componenti e sintomi di un sistema genocidiario”, scrive Power, “ma come vittime in un tempo di guerra - insomma, morti di combattenti o civili trovatisi intrappolati in una guerra civile”. E come in tutte le tragedie, l’amara ironia - resa ancora più amara dalla irrimediabile complicità di Power e del suo capo il Presidente degli Stati Uniti nel genocidio palestinese in corso oggi - cresce come l’edera:
Durante una conferenza stampa del Dipartimento di Stato l'8 aprile, Bushnell fece un'apparizione e parlò con gravità della crescente violenza in Ruanda e della situazione degli americani lì presenti. Dopo aver lasciato il podio, Michael McCurry, portavoce del dipartimento, prese il suo posto e criticò i governi stranieri per aver impedito la proiezione del film di Steven Spielberg Schindler's List. "Questo film rappresenta in modo toccante ... la più orribile catastrofe del ventesimo secolo," disse. "E mostra che, anche in mezzo a un genocidio, un individuo può fare la differenza." Nessuno fece alcun collegamento tra le osservazioni di Bushnell e quelle di McCurry.
Una volta terminate le uccisioni, si poteva finalmente parlare di “genocidio”: non c’era più niente da fare, nessuna situazione di merda nella quali ficcarsi per ragioni umanitarie (Haiti e Somalia sono le prime due che mi vengono in mente per quanto riguarda la fine del secolo scorso) e solo lacrime da versare. Finalmente, si poteva entrare in scena. E poi, come in ogni prima ed in ogni durante, c’è un dopo. Un genocidio da digerire ed un processo di digestione. È qui, nella memorializzazione strumentale, che le strade di Israele e del Ruanda si incontrano di nuovo: due entità statali che fondano la propria ragion d’essere sulla (non necessariamente illegittima e non necessariamente comprensibile) necessità di trovare una terra per un popolo che non smette mai di essere in pericolo, che questi siano i Tutsi o gli ebrei.
Una lettura interessante la troviamo nei lavori di Robin Philpot, un giornalista canadese che ha scritto tanto e non sempre bene di quello che è successo in Ruanda. Philpot è il fratello di un avvocato che ha difeso alcuni tra i massacratori Huti più di spicco, è un convinto indipendentista quebecchese (e quindi legge il mondo attraverso una fragile dicotomia che vede gli statunitensi e i canadesi avere sempre torto e i francesi sempre ragione), nel suo libro Rwanda and the New Scramble for Africa: From Tragedy to Useful Imperial Fiction (2013, Baraka Books) scrive robe che mi trovano fortemente in disaccordo ed il fatto che io lo prenda in considerazione non significa in alcuna maniera che io sia d’accordo con la totalità del suo pensiero o che io abbia alcuna simpatia per la sua persona. Ad ogni modo, qualche anno fa dopo una brutta sconfitta a calcetto per rincuorare un compagno di squadra responsabile della verticalizzazione sbagliata che ci era costata il contropiede ed il goal del 4-1 avevo citato Stalin (“Se Dio fosse esistito, avrebbe fatto il mondo più giusto”), quindi direi che posso anche smettere di farmi problemi e citare una roba di Philpot senza ulteriori disclaimer.
La genesi della memorializzazione del genocidio ruandese ha molto di israeliano, così come la sua trasformazione in una vera e propria arma. Scrive Philpot:
Due eventi specifici, spesso trascurati, hanno contribuito alla consacrazione ufficiale dell'uso del termine "genocidio" per descrivere l'intera tragedia ruandese. Il primo fu una conferenza del 1995 tenutasi a Kigali, organizzata dall'Ufficio del Presidente del Ruanda, a cui parteciparono, tra gli altri, Efraim Zuroff del Simon Wiesenthal Center e Michael Berenbaum del Museo dell’Olocausto degli Stati Uniti. Entrambi furono invitati a formulare proposte sulla memorializzazione del genocidio. Efraim Zuroff divenne in seguito consigliere del governo ruandese nella caccia ai responsabili delle uccisioni. Da quel momento, i sionisti di tutto il mondo si dichiararono disposti a condividere l'uso del termine con i Tutsi ruandesi, cosa che non è mai avvenuta con gli Armeni, principalmente a causa dell'alleanza strategica di Israele con la Turchia. Il secondo evento, avvenuto meno di un anno dopo, fu la visita ufficiale di Paul Kagame in Israele, dove fu accolto con tutti gli onori da Benjamin Netanyahu.
Ne sono successe di cose da quell’ottobre 1996, sia per me - al tempo un neonato - che per Netanyahu - al tempo senza un mandato di arresto internazionale - che per Kagame - al tempo solo un tipo che assomigliava ad un insetto stecco e che aveva appena preso il potere nel suo paese. Alcune di queste cose, in ordine sparso: io ho imparato a parlare, ad andare in bicicletta, ad aprire le birre con gli accendini e ho finito un paio di volte Red Dead Redemption 2; Netanyahu ha perfezionato l’arte della strumentalizzazione di un genocidio (ha detto che Hitler è stato indotto all’Olocausto dal Muftì di Gerusalemme e ha iniziato ad usare il genocidio armeno per mettere pressione su un Erdogan sempre più critico verso Israele) e si è macchiato direttamente o indirettamente della morte di centinaia di migliaia di uomini, donne, anziani e bambini palestinesi, siriani e libanesi; Kagame ha attaccato e invaso il Congo (responsabile di offrire asilo ad alcuni Hutu apparentemente coinvolti nel genocidio), ha finanziato organizzazioni terroristiche come l’M23, ha stretto accordi con svariati paesi (tra i quali Regno Unito e lo stesso Israele) offrendo il suo paese come destinazione per deportazioni di immigrati clandestini e ha sponsorizzato le maglie da calcio di Bayern Monaco, Paris Saint Germain e Arsenal.
Eccola, finalmente, la parola con la G. Una parola che non si riferisce ad una persona che fa del male ad un’altra persona, ad una tragedia, all’omicidio di una collettività, ma ad una dialettica estremamente politica tra due componenti estremamente politiche: oppresso ed oppressore. È politica la mano che preme il grilletto della Maschinenpistole dei soldati tedeschi (o che tiene il machete degli assassini Hutu) come è politica la morte di chi muore. È politica la reazione delle potenze mondiali ed è politica la giustizia che arriva - se arriva - poi, quando tutto si ferma. Più politica di tutto, comunque, è la risposta che ci diamo noi - che non siamo assassini, vittime, potenze mondiali o giudici - quando ci domandiamo cosa faremmo noi, come ci comporteremmo noi, di fronte alla parola con la G. Ora che è passato più di un anno, finalmente lo sappiamo. Se a qualcuno un giorno toccherà giudicarci, che non sappia cosa sia la pietà.
Grazie per aver letto fino alla fine, spero di aver fatto un buon uso della tua attenzione e del tuo tempo. Se non sei ancora iscritto o iscritta alla newsletter puoi farlo da qui, se invece vuoi dirmi qualcosa puoi rispondere a questa email o scrivermi su Instagram. Lezione di nuoto era, è, e rimarrà gratuita. Se però hai voglia di pagare questa birra che ci prendiamo insieme ogni mese e supportare economicamente questo progetto, da oggi puoi farlo. Altrimenti è comunque ok, nessun problema. Anche perché, come dice una delle più grandi penne del nostro tempo: “saremo ricchi, ricchi per sempre / o forse no, vabbè fa niente”.
Non ho ancora finito di leggere, ma è già la cosa più bella che ho letto sul tema. Poi magari leggo poco io, sui giornali comunque cose di questo tenore non si vedono. Grazie