L’oratorio Don Bosco dell’opera salesiana di Livorno era proprio davanti alla scuola gialla dove ho fatto le elementari. Io al tempo ci andavo per giocare a pallone con i miei amici; qualche volta capitava che andassimo anche ai giardinetti lì accanto, ma 1) nel campetto in cemento recintato, che per noi era il Santiago Bernabeu (se non seguite il calcio: stadio bello del Real Madrid), ci giocavano sempre a basket dei ragazzi più grandi; 2) all’oratorio c’era chi ci dava la merenda. A un certo punto iniziai anche ad andare agli incontri dove ci spiegavano le cose da spiegare del cattolicesimo e ci davamo la mano e cantavamo. Preferivo il pallone, ma non era malaccio. Mi ricordo che il boss era un tale don Karim, un prete iraniano che era un grande e che da quel che so una volta ha anche fatto l’interprete di papa Francesco. C’era anche un animatore che suonava la chitarra e si era lasciato crescere l’unghia del mignolo per suonare senza plettro. Io ero un bambino ma sapevo già riconoscere il bene dal male ed ero disgustato da quell’unghia lunga sul mignolo come poi sarei stato disgustato da tutte le unghie lunghe su tutti i mignoli del mondo. È una roba da pazzi, francamente.
Ad ogni modo: ero un ragazzo dell’oratorio, quasi senza accorgermene e quasi senza che se ne accorgesse mio padre — convinto ghibellino. Un giorno un tipo che faceva l’animatore dell’opera salesiana venne da me e mi disse che avrei dovuto comprare il calendario dell’oratorio, che costava solo cinque euro e che se l’avessi fatto sarei andato in paradiso. Tornai a casa, lo raccontai a mio padre, mi spiegò che la persona che aveva provato a vendere un calendario ad un bambino in cambio di un’indulgenza era una persona da evitare a tutti i costi e che io non avrei mai più messo piede lì. Mi dispiaceva per il pallone e la merenda, ma tutto sommato aveva senso anche per me. La mia parabola cristiano cattolica finiva lì, con molte più partite di pallone giocate che passi dei vangeli letti.
Mentre ero all’università mi convinsi che non si può pensare di capire il mondo — capire il mondo era l’unica cosa che mi interessava all’università, seconda solo al fumare tutte le canne del mondo — senza capire l’Islam. Come tante persone di sinistra delle quali mi ero circondato, avevo il vizio di mente che mi portava a pensare che il cattolicesimo era oscurantismo mentre l’islam una potenziale spinta propulsiva (verso cosa non lo so, me lo sono scordato). Questo per me rappresentava un cortocircuito, dato che da ragazzino i video che più mi sparavo su YouTube erano la punizione di Adrian Mutu contro il PSV nel 2008 e quello dove Nasser (rip big dawg) racconta di quando uno dei Fratelli Musulmani gli disse che tutte le donne avrebbero dovuto indossare un velo nei luoghi pubblici, e mentre lo racconta Nasser si piscia addosso dalle risate così come le persone che lo stanno a sentire — uno addirittura urla “faglielo mettere a lui!”. Da cosa derivava questa convinzione? Dal fatto che ero scemo. Che eravamo scemi, dato che non ero l’unico.
Eravamo talmente inorriditi e riempiti dal dramma delle persone che arrivano per mare o muoiono sotto le nostre bombe da pensare che loro (loro musulmani) avevano ragione e noi (noi cattolici) avevamo torto. Non c’è bisogno che io vi sottolinei tutti i livelli sui quali questo discorso è sbagliato, lo capite da voi. Ad ogni modo, decisi di voler guardare attraverso questa ragione e mi iscrissi a due corsi tenuti da una professoressa estremamente brava e competente: Storia dei paesi islamici e Islamistica. Il corso copriva anche gli aspetti più filosofico-religiosi, oltre a quelli storico-politici, e questo mi dava l’opportunità di aprire gli occhi. Non mancai ad una sola lezione, studiai seriamente, lessi tutte le letture che dovevo leggere, passai l’esame con buoni voti e rimasi sconvolto da quanto avevo sopravvalutato il tutto. Il fascino per l’Islam si vaporizzò mentre lo tenevo ancora in mano. Questa realizzazione non mi tolse il sonno.
Sempre durante gli anni dell’università, però, sviluppai un’ossessione: quella per la sofferenza del popolo ebraico durante l’Olocausto. Nell’esperienza storica dello sterminio degli ebrei d’Europa la forbice tra vittima e carnefice è forse la più ampia che la storia abbia mai conosciuto: sì, tutte le vittime sono vittime e tutti i carnefici sono carnefici, ma mai fino a quel momento la vittima era stata così tanto vittima e il carnefice così tanto carnefice. Ho visto una quantità insalubre di filmati d’archivio dove ebrei ucraini e polacchi venivano giustiziati, ho letto decine di diari, centinaia di testimonianze. Ho pianto molto leggendo Il Girasole di Simon Wiesenthal. Ho passato il mio interrail andando per campi di concentramento e ho avuto un primo appuntamento a Dachau (giuro! Dato che lei era in un vergognoso ritardo mentre l’aspettavo andai a visitare il Centro di Documentazione sul Nazionalsocialismo di Monaco, poi per farsi perdonare mi offrì il libanese quella sera. Non ci fu un secondo appuntamento).
Poi, nella mia famiglia si iniziò a parlare di un fatto del quale nessuno aveva mai parlato granché: mio nonno era ebreo. In realtà era mezzo e mezzo, dato che sua mamma era ebrea e suo babbo no. A mio nonno e alla sua famiglia di essere ebrei non poteva fregar di meno: non solo non praticavano la religione ebraica, ma lui venne battezzato di nascosto alla famiglia della mia bisnonna per poi non praticare neanche quella cristiana cattolica. Mio nonno era mio nonno e poco più. Scoprì questa roba di essere mezzo ebreo solo con le leggi razziali, ma in una maniera o nell’altra riuscì anche a non essere espulso da scuola. Poi arrivò la guerra, arrivarono le bombe, sfollarono nelle campagne pisane e qui venne preso dai nazisti (non credo in quanto ebreo, ma in quanto sfollato capitato in un rastrellamento). Poi scappò miracolosamente dal campo di smistamento, sopravvisse alla guerra e iniziò di nuovo a vivere fregandosene di essere ebreo o non ebreo o mezzo ebreo.
A un certo punto questa storia iniziò a interessare a me. Avere origini ebraiche (pur non essendo ebreo, dato che la matrilinearità fondamentale in questo processo nella mia famiglia è interrotta) mi piaceva un sacco perché, in una parte minima che più minima non potrebbe essere, mi restituiva un senso identitario. In quella cosa così grande che era successa (lo sterminio degli ebrei d’Europa), una briciola della mia identità era coinvolta (dalla parte giusta della storia) e questa cosa mi riempiva di vita. Penso sia lo stesso identico meccanismo che porta i sardi a portare le bandiere della Sardegna ad ogni evento al quale assistono. Questa storia ha avuto anche risvolti tragicomici: quando mi sono trasferito in un altro paese ho iniziato a raccontare questa storia alla gente con la quale parlavo con più nonchalance rispetto a quando ero in Italia. Ad un certo punto un ragazzo franco-algerino che conoscevo solo di vista viene da me e mi fa “ti volevo dire che anche la mia famiglia è ebrea, erano ebrei algerini poi emigrati in Francia. Non sei solo”. Si era sparsa la voce a quanto pare. Quell’ultima parte, il fatto di non essere solo, mi tagliò le gambe. Io mi sentii sprofondare: se confrontato a chi era ebreo veramente (ebreo algerino tra l’altro, top 5 nella mia personale classifica di ebrei) il mio ebraismo era talmente annacquato da sembrare una truffa e io ero di fatto un truffatore. Mi sentivo Elizabeth Warren che dice di essere cherokee. Non ho mai più raccontato a nessuno la storia di mio nonno e del fatto che io sono tipo un quarto ebreo, fino a ora.
Questo era per dire che sono sempre stato estremamente sensibile al tema dell’antisemitismo. Se c’è una scala per calcolare chi è contro l’antisemitismo e va da chi è contro l’antisemitismo a chi si spaccia per ebreo talmente è contro l’antisemitismo, io sono nella zona di chi si spaccia per ebreo talmente è contro l’antisemitismo. Sono il Jannik Sinner del pro-semitismo, piuttosto. Il Lamine Yamal del voler bene alle persone ebree. Il Luka Dončić del non essere antisemiti. Se l’ebraismo fosse un film di merda, io sarei Nosferatu. Se il Talmud fosse un podcast true crime presentato da un conduttore con una voce avvolgente ma incline al fossilizzarsi su dettagli macabri e inutili al fine della storia tanto da portarti a pensare che sia lui il vero colpevole del crimine che sta raccontando, io sarei Francesco Migliaccio in Demoni Urbani. Ok, è abbastanza. Spero comunque si sia capito.
Perché dico questo? Perché credo che stiamo giocando ad un gioco pericoloso. Ci pensavo l’altro giorno, quando guardavo il peggior documentario della storia delle documentazioni in generale: October 8 (o October 8th, o October H8TE; il film gioca sull’assonanza tra odio e otto in inglese ma non ci si capisce un cazzo su quale sia il titolo effettivo). Premessa: guardare questo film doveva essere un meme, inizialmente dovevo vederlo insieme a un paio di amici miei con i quali in alcune fasi della nostra vita mi punivo guardando film di merda. È successo con i cinepanettoni come con la filmografia di Nicholas Cage, e questo documentario-diarrea su quanto sia stato difficile per gli studenti ebrei sopravvivere (emotivamente ma anche fisicamente, stando ai loro racconti) alle proteste filo-palestinesi nei campus statunitensi nei mesi successivi agli attacchi del 7 ottobre sembrava un buon materiale per rispolverare la tradizione. Alla fine loro non hanno potuto o voluto e io me lo sono visto da solo. Non ce l’ho fatta a finirlo.
Questo documentario, composto al 70% da screenshot palesemente inventati e interviste a mitomani, si presenta come la risposta israeliana al documentario israelo-palestinese vincitore dell’Oscar No Other Land: se i palestinesi non hanno altra terra che quella occupata e distrutta dall’unica democrazia del Medio Oriente, i sionisti (gli ebrei, nella disgustosa narrazione di October 8) invece hanno un’Another Land — gli Stati Uniti d’America — dove combattere una guerra decisamente più dura di quella a Gaza, se non altro per il fatto che in questa non combattono contro dei bambini. Il documentario, insomma, propone le proteste nei campus come una continuazione a tutti gli effetti del 7 ottobre e una minaccia all’esistenza stessa degli studenti ebrei come delle loro identità ebraiche. Un dettaglio particolarmente interessante è il sovvertimento e la contemporanea riproposizione del paradigma tradizionalmente antisemita di chi detiene il controllo: se per gli antisemiti gli ebrei sono in controllo dell’industria mediatica e finanziaria, la tesi del documentario è che oggi è vero il contrario: sono i palestinesi ad essere i burattinai del mondo.
Chi si schiera contro Israele, di conseguenza, è un pupazzo antisemita nelle mani di Hamas. Sono antisemiti gli studenti e le studentesse scese in piazza negli Stati Uniti come il governo spagnolo, le Nazioni Uniti come la Corte dell’Aja; sono antisemiti gli ebrei che prendono parola contro le azioni militari di Israele come una ristoratrice di Napoli. Sono antisemiti i tifosi che portano le bandiere palestinesi nei loro stadi come Medici Senza Frontiere. È antisemita Gary Lineker, Roger Waters e Jeremy Corbyn. Se tutti sono antisemiti — se io mi devo sentir dare dell’antisemita da luridi pezzi di merda che appoggiano piani genocidiari —, mi pare scontato dire che il banco è saltato: nessuno è antisemita.
O meglio, qualcuno sarà anche antisemita, ma si fa davvero fatica a riconoscerlo ora. E, tristemente, ce ne accorgiamo anche guardandoci allo specchio: nella narrazione antisionista che proviene dagli ambienti della sinistra radicale sono in diversi i personaggi che fanno fatica a distinguere un ebreo e un sionista ai quali è stato dato un palco che non meritavano. Ad ogni modo, se la denuncia di antisemitismo diventa esclusivamente uno strumento di potere e repressione, allora abbiamo un problema gigantesco. Se è una maniera per non far dire alle persone che l’aspettativa di vita a Gaza in 1 anno si è abbassata da 70 anni a 40, allora questo ha perso completamente il suo contatto con la realtà e la sua funzione sociale. Se gli studenti che hanno preso parte alle proteste contro Israele a Harvard vengono deportati perché accusati di antisemitismo, allora stiamo parlando del niente più assoluto. Un niente totalizzante, per l’appunto.
Questo rappresenta un pericolo per gli ebrei dentro e fuori Israele. Non un pericolo come quello che stanno vivendo i palestinesi sotto le bombe, dei quali oltre 70mila (stime al momento al ribasso) sono morti. Giorgio Monti, coordinatore di Emergency a Gaza, ha detto che “se vivete in una famiglia di quattro persone guardatevi intorno: a Gaza uno su quattro sarebbe morto”. Ecco, ovviamente questo pericolo al momento è IL pericolo e capisco quelli di voi che ora stanno storcendo la bocca scoprendo che in un pezzo su Gaza il numero di palestinesi morti è stato citato solo alla fine. Se non ve ne siete accorti, però, non possiamo farci assolutamente niente. Lo slancio più nobile o il sacrificio più costoso di ognuno di noi non può salvare un’unghia di un bambino o una bambina palestinese. Non siamo in controllo di nulla, figuriamoci delle vite delle persone a Gaza. Ognuno reagisce come può a questa situazione: c’è chi mette l’anguria sulle storia di Instagram, chi scende in piazza a urlare contro finestre chiuse, chi prende a schiaffi i vecchi della Brigata Ebraica o interrompe gli eventi dove parla Parenzo. Io ho impiegato la mezz’ora che richiedono queste attività a provare a capire che le azioni militari del governo israeliano e l’appoggio quasi incondizionato del popolo israeliano a queste non solo rappresentano un genocidio, ma minano anche le fondamenta socio-politiche che permettono alle nostre società di tutelarsi dai genocidi del passato.
In tanti dicono che paragonare quello che sta succedendo a Gaza oggi con quello che è successo in Europa ieri è sbagliato e senza fondamento. Sono in larga parte d’accordo: Netanyahu non è Hitler, il sionismo non è il nazionalsocialismo e Israele non è la Germania nazista. La situazione è più complessa e più sfaccettata, a mio avviso; se una cosa è più complessa, ovviamente, non significa che sia meno grave. C’è un qualcosa che mi gira in mente da un po’ di tempo, però: questa storia, in un certo senso, puzza di Stella Goldschlag. Ebrea, collaboratrice della Gestapo e traditrice del popolo ebraico. Portava i soldati vicino ai luoghi dove si nascondevano i membri della sua stessa comunità, indicava non dicendo una parola e così li condannava a morte. Grazie alle soffiate di Stella, a morire furono tra i 600 e i 3000 ebrei.
Ci penso da quando ho realizzato quello che dicevo prima, che la lotta contro l’antisemitismo oggi è stata rubata, occupata e tradita dal sionismo. Quando questa storia finirà, quando sarà morto anche l’ultimo palestinese o quando il mondo deciderà di fermare Israele, ho tanta paura che arriverà un conto — perché il conto arriva sempre — anche sulle tavole di chi non ha mangiato niente. E non ci saranno più gli strumenti per proteggere nessuno, per dire che qualcuno è antisemita, proprio perché la parola antisemita non vorrà dire più niente. Perché un giorno anche Nives Monda, titolare della Taverna Santa Chiara di Napoli, è stata tacciata di antisemitismo. A quel punto sarà un casino, perché l’unica cosa che rimarrà sarà un dito che indica un rifugio: il dito di Stella Goldschlag.
Grazie per aver letto fino alla fine, spero di aver fatto un buon uso della tua attenzione e del tuo tempo. Se non sei ancora iscritto o iscritta alla newsletter puoi farlo da qui, se invece vuoi dirmi qualcosa puoi rispondere a questa email o scrivermi su Instagram. Lezione di nuoto era, è, e rimarrà gratuita. Se però hai voglia di supportare economicamente questo progetto puoi farlo tramite il bottone che trovi sotto, oppure comprando il nuovo merch che trovi qui. Altrimenti è comunque ok, nessun problema. Anche perché, come dice una delle più grandi penne del nostro tempo: “saremo ricchi, ricchi per sempre / o forse no, vabbè fa niente”.