Facciamo finta che domani esca un libro che si chiama Tutte le volte che ho riso, scritto da me e con dietro una mia foto in bianco e nero tipo quella di Steve Jobs e la biografia che dice che sono nato nel 1996 a Pisa ma solo perché il dottore che seguiva mia mamma lavorava lì - io in realtà sono livornese. Se domani dovesse succedere questo sul serio io, per prima cosa, darei di matto. Darei i numeri, per usare un’espressione che ho sempre desiderato usare senza mai trovare il coraggio. Io quel libro non l’ho mai scritto, quella foto non l’ho mai vista prima - anche se c’è da dire che sto da dio con il maglioncino nero a collo alto - e non vedo alcuna necessità di scrivere di Pisa in una biografia di poche righe. Ma poi chi è che ha deciso di pubblicare questo libro, che solo Oprah Winfrey avrebbe potuto scrivere? È un segno che sto impazzendo, un segno della crisi dell’editoria italiana (l’editoria italiana è in crisi? queste cose di solito si dicono ma non ho mai controllato)? O entrambi? E soprattutto, con chi posso parlare per rimuovere il riferimento alla P-word dalla biografia?
Darei i numeri, dicevo. Poi mi ricomporrei e inizierei a sfogliare le pagine. Ci sarebbero un sacco di robe assurde. Ci sarebbe mio babbo che fa parlare i pupazzi. Ci sarebbero le cassette di Mr. Bean che nonno teneva nell’armadietto sotto la televisione, vicino a tutti i foglietti con i disegni e i cuori e i ti voglio bene e le dediche che mia cugina scriveva ogni volta che lo andavamo a trovare, e io non facevo mai - perché non lo facevo mai? Sarebbe bello, ora, sapere che nonno aveva anche dei miei disegni, cuori, ti voglio bene e dediche nell’armadietto sotto la televisione insieme alle cassette di Mr. Bean. Poi ci sarebbero robe orribili come La Premiata Ditta e Calciatori Brutti, e robe meno orribili come montagne di YouTube poops e Maccio Capatonda e Checco Zalone. Niente di tutto ciò ora mi è lontanamente simpatico, ma c’è stato un tempo dove erano la cosa più divertente del mondo. Un tempo che ora sembra lontanissimo.
Poi, andando avanti, in quel libro ci avrei trovato altro. Ci avrei trovato la barzelletta assurda e potentissima di Berlusconi sugli ebrei che nascondono a pagamento un altro ebreo durante la guerra e non gli dicono che la guerra è finita da anni, ci troverei Bush che mentre sta per andare a giocare a golf si lancia in un pippone sul fatto che faranno il culo a tutti i terroristi in Medio Oriente prima di dire “e ora guardate questo tiro” e poi se ne va sulla macchinina (potete e dovete vedere l’intera scena qui), e poi ci troverei quell’idiota di Bob Katter che prima dice di non avere niente contro i gay ma poi switcha diventa cattivo e dice di non voler perdere tempo con l’argomento perché nel Queensland ogni tre mesi un tipo muore per i coccodrilli (qui). Ci troverei anche tutte le volte che ho letto stronzio sulla tavola periodica a scuola.
Di alcune di queste risate ne vado orgoglioso, di altre molto meno. Tutto, ad ogni modo, rientra nella sfera di una legittima reazione al comico o al ridicolo. Tante volte, però, ho riso quando non aveva granché senso ridere. Ho riso sguaiatamente per il nervosismo quando ero un adolescente irresponsabile e la mia fidanzata mi disse che il ciclo era in ritardo - “tranquillo Giangi, era una finta”, come direbbe il grande Turi. Ho riso fortissimo per la rabbia quando ero in macchina e un altro automobilista col quale stavo litigando mi urlò un insulto geniale al quale non sapevo rispondere. Ho riso anche per motivi che non so. Una volta durante una vacanza a Brighton stavamo aspettando il bus e Ema si era seduto sul bordo del marciapiede con le gambe distese sulla strada e io dissi “Ema, dio m[REDACTED], come ti viene in mente di sederti con le gambe distese sulla strada?” e lui, che siccome è un imbecille e voleva avere ragione, mi disse di farmi i cazzi miei. A quel punto volevo solo ferirlo e dissi che se il bus fosse arrivato tranciando quelle gambe da imbecille che si ritrovava, io avrei riso e solo dopo avrei prestato soccorso. No, Ema, non avrei riso. Sarei stato male, se un bus ti avesse tranciato le gambe di fronte a me.
La maggior parte delle pagine, però, sarebbe piena di interazioni sociali che non sono stato in grado di gestire. Ci sono stati, ci sono e ci saranno diversi motivi che mi hanno portato, mi portano e mi porteranno a ridere ad una conversazione che non fa ridere. Certe volte un accento mi rende una lingua totalmente incomprensibile, che questa sia l’italiano o l’inglese. Ho amicizie con persone neozelandesi o campane basate su conversazioni delle quali io solitamente capisco il 30%. Il resto del tempo, rido. Altre volte la mia soglia dell’attenzione mi fa pensare a cose tipo la pagina Wikipedia List of people banned from entering the United States o il post surreale di Mauro Icardi in occasione della festa nazionale turca in ricordo della vittoria nella battaglia di Dumlupınar. Quando riemergo ho completamente perso il filo della conversazione, ma come cazzo fai a dire a uno “scusa puoi ripetere che stavo pensando a Icardi a cavallo vestito come Ataturk?”. E allora vado nel panico e rido, sperando che il mio interlocutore non mi abbia appena raccontato di un lutto.
Sto cercando disperatamente di rendere divertente un problema, mi sembra ovvio. Cosa significa il fatto che rido quando non capisco cosa sta succedendo intorno a me? Quella che mi ritrovo tra le mani è una pessima strategia di adattamento, un po’ come se il camaleonte al posto di mimetizzarsi emettesse un suono fortissimo in grado di attirare tutti i predatori nel giro di un paio di kilometri. Uno si preoccupa di pianificare ogni ora, ogni minuto, ogni secondo della sua vita e poi va a finire che non capisce qualcosa. È così, signora mia, certe cose non si capiscono - terrificante, ingiusto, paralizzante, ma le regole del gioco sono queste e le posso assicurare che non le ho decise io. Io ci ho pensato, ma pensateci anche voi: cosa resta da fare, quando una qualche cosa rimane oscura anche mentre è lì, davanti a te? E quando ti attraversa? Quando ci sei dentro, ma sei dentro ad un grande banco di nebbia? C’è davvero molto altro da fare, oltre a ridere?
No, credo non ci sia molto altro da fare oltre a ridere. È una delle tante cose che il secolo scorso ci ha insegnato. Ci sono due risate, in particolare, che è difficile scordarsi perché è difficile comprendere. Due risate fuori luogo, sguaiate e inopportune. Risate di un mondo che cambia e che non capisci, o non ti capisce, o tutte e due. Sono risate diverse, ma che sono anche la stessa cosa. Una risata è inflitta, e l’altra subita, come se avesse una qualche importanza la differenza tra infliggere e subire - tra vivere e morire - quando il mondo crolla e tu rimani incastrato sotto le macerie. A Waterloo gli uomini di Napoleone uccisero più di 20mila britannici, irlandesi, olandesi, belgi e prussiani. Nessuno si ricorda più il francese più valoroso di quella domenica, anche se c’era stato.
Queste risate sono capitate in due processi, a battaglia finita. A guerra persa. A sconfitti decisi. A mondo crollato. Sono due risate tedesche, in due dei pochi momenti nei quali i tedeschi ridono ma dei tanti momenti nei quali il mondo tedesco è passato da significare tutto a significare niente. Nel 1945, e poi nel 1989. Se è vero che, come diceva Gramsci, tra un mondo che inizia ed uno che finisce c’è il chiaroscuro dove vivono i mostri, è vero anche che qualche volta ci troviamo un pozzo profondo; dal fondo, arriva il suono di una risata sguaiata. Un’ultima, tristissima, danza del cigno. Se i cigni sapessero ridere.
Sono stati in molti a raccontare gli ultimi giorni della Repubblica Democratica Tedesca, uno stato che esisteva e che ora non esiste più e che aveva provato ad organizzare la sua società secondo i precetti del socialismo reale. Alcuni lo hanno fatto puntando i riflettori sulla gente che si abbracciava perché il regno del terrore era finito, altri - tra i quali io - puntandoli sulle cose sceme che succedono mentre un muro crolla, altri ancora sulle risate che hanno rimbombato nelle orecchie di Erich Mielke fino a che non è morto, pochi mesi dopo che un nuovo secolo era nato. Katja Hoyer, una straordinaria storica anglo-tedesca, è una di coloro che vedono la fine del capo della Stasi nelle sue parole pronunciate di fronte alla Volkskammer, il Parlamento della DDR.
Non era un processo vero e proprio, come vi avevo anticipato, ma ci si avvicinava. Il muro era già crollato da qualche giorno e quel 13 novembre 1989 la Volkskammer poteva dirsi libera dal fiato sul collo del Partito Socialista Unificato di Germania; forte di questa nuova realtà, aveva chiamato Mielke a rispondere della gestione di quei giorni e di tutti i giorni precedenti. Mielke, più che un mostro, a quel punto sembrava un povero vecchio. Nel suo Beyond the Wall (Random House, 2023), la Hoyer restituisce bene la situazione:
Un tempo l'uomo più temuto nella RDT, Erich Mielke aveva ormai quasi ottantadue anni e lo dimostrava. Ignorando i suoi appunti, divagava con vecchi luoghi comuni politici. Fu subito evidente che non esercitava più il terrore e il controllo che gli avevano permesso di rimanere al potere per così tanto tempo.
I colleghi iniziano a fare domande, Mielke inizia a rispondere ma se possibile la situazione precipita ulteriormente. Inizia a riferirsi alle persone intorno a lui come “compagni”, ma tutti lo guardano come se fosse un alieno. “Compagni” era ormai una parolaccia, lo sapevano tutti tranne Mielke. “Abbiamo, compagni, cari deputati, un grado straordinariamente alto di contatto con tutti i lavoratori". Un deputato più agitato degli altri lo interrompe e dice al vecchio di smetterla di usare la parola “compagni”. “Non tutti quelli che siedono in questa camera sono compagni”, dice l’applauditissimo deputato. Se al posto di Berlino Mielke fosse nato a Casoria, si potrebbe dire che a quel punto sente u fridd 'nguoll. Va nel panico, si mette ancora di più sulla difensiva. Mielke usa quell’espressione per riferirsi alle persone intorno a lui dal 1921, da quando decise che nella vita lui sarebbe stato un comunista. “Scusate, è solo una formalità”. Non sa più cosa dire. In un disperato tentativo di dire qualcosa, sceglie le parole più sbagliate tra tutte quelle che il capo della Stasi possa scegliere quattro giorni dopo il crollo del muro di Berlino: “davvero, io amo tutti gli esseri umani”. Tutto il Parlamento scoppia a ridere. Sipario.
Anni prima che crollasse questa Germania, ne era crollata un’altra. Quella dei saluti con il braccio teso, le camere a gas e i roghi dei libri. Quella dell’incendio del Reichstag, l’invasione della Polonia e le Fosse Ardeatine. Anche la fine di questa Germania, una Germania - se mi permettete - bruttina e problematica, ha fatto ride. O mezzo ride, perlomeno. Non sto parlando dei soldati sovietici o statunitensi che liberano i campi di concentramento, o di Hitler che si spara un proiettile in testa, o dell’irreprensibile Alfred Jodl che firma l’atto di resa. Anche se con questa serie di eventi è arrivata la fine, non è stata la fine - trovatevi un altro che vi cita Nesli raccontando della capitolazione della Germania nazista, se avete le palle. Una fine che assomiglia più ad una fine è invece Norimberga, dove i nazisti che non erano morti o scappati vennero processati.
Sembra una chiamata particolarmente audace dire che Norimberga ha fatto ride, ma ha fatto ride. Ha fatto ride chi era lì per rispondere di quando era stata pianificata, iniziata e portata avanti una guerra d’aggressione e di quando erano stati commessi crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità. La storia viene raccontata da Telford Taylor, Generale di Brigata statunitense e capo procuratore proprio a Norimberga. Nel 1992 Taylor ha pubblicato un mattone infinito e l’ha chiamato The Anatomy of the Nuremberg Trials: A Personal Memoir (prima edizione della Little Brown & Co). Nelle 700 e passa pagine scritte da Taylor ci trovi tutte le cose che ti puoi aspettare: i crimini che ti danno il voltastomaco, le testimonianze da rimanerci senza fiato, il sentimento di giustizia che guida uomini e donne in grado di scrivere la storia. Nelle stesse 700 pagine, ci trovi anche alcune delle cose che non ti puoi proprio aspettare: la gente che ride, come dicevo.
Sono diverse le occasioni nella quali Taylor racconta di gente che ride. Certe volte è il pubblico che assiste ai processi a ridere. Ridono quando Geoffrey Lawrence, uno dei due magistrati che rappresentavano il Regno Unito, fa il bulletto con gli imputati - quando dice a Rudolf Hess che prenderà il suo “Nein!!” urlato al microfono come una pacata dichiarazione di non colpevolezza, o quando Hermann Göring prende per il culo sempre Hess per aver finto una perdita di memoria - in pratica c’è un tipo chiamato a deporre che non si ricorda delle cose, e Göring dice ad Hess come ci si sente ad avere concorrenza. Altre volte è Lawrence a doversi incazzare e dire al pubblico che è un attimo fuori luogo ridere in quel contesto - ad esempio quando il Presidente della Recihsbank e ministro dell’economia Hjalmar Schacht chiede rassicurazioni sul fatto che non gli venga tolta la pensione, dato che ha delle spese da saldare presto.
C’è un momento particolare, però, che non mi levo dalla testa. Sarà per il motivo della risata, sarà perché è forse l’unico momento dove tutti gli imputati ridono insieme, come i vecchi amici che non sono mai stati, sarà perché abbiamo una foto che cristallizza quel momento - questa foto, con Göring, Hess, von Ribbentrop, Keitel, Dönitz, Raeder, Schirach e Sauckel che si spaccano di risate. Questa gente si beccò quattro condanne a morte, due ergastoli, una condanna a 20 anni e una a 10. Che cazzo c’avete da ride, verrebbe da domandarsi. Vediamolo insieme.
Il giurista statunitense Ralph Albrecht stava parlando, era il turno della sua presentazione della struttura di governo tedesca durante l’esperienza nazionalsocialista appena terminata. Ad un certo punto dice che il successore designato di Adolf Hitler era l'imputato Hess, mentre come terzo in linea troviamo l'imputato Göring. È sbagliato, Albrecht si era confuso. Göring veniva prima di Hess. Se ne accorge subito anche Taylor, che è curioso di vedere la reazione degli imputati:
Dato che ero seduto a qualche metro da quei due signori, ho guardato per vedere se qualcuno di loro aveva notato lo scivolone e, in caso, come aveva reagito. Göring stava già agitando le braccia per attirare l'attenzione, indicando se stesso e dicendo ripetutamente: "Ich war der Zweite!" ("Ero io il secondo!"'). Mentre Göring protestava animatamente, Hess si voltò, lo guardò e scoppiò a ridere.
Non solo Hess, in realtà. Come si nota dall’immagine, tutti scoppiano a ridere. Anche i soldati in piedi dietro di loro. A questo punto, iniziano i giochi di prospettiva. Taylor in questo episodio ci legge le bugie di Hess, che mette da parte la fantomatica amnesia sul suo ruolo e le sue responsabilità - era evidente che si ricordasse di essere il numero tre, e non il due. Ci si può leggere il fatto che siamo tutti esseri umani e una gaffe fa ridere allo stesso modo l’uomo più cattivo e l’uomo più buono del mondo. O ci si può leggere la cattiveria più profonda, che prende per il culo i giuristi al processo di Norimberga. Oppure ancora qualcosa del carattere di Göring, pronto a ridicolizzare tutto e tutti in nome dell’ego. Sulla strada del patibolo, la cosa più importante era difendere l’orgoglio di essere il numero due e non il tre. Bravo bravo, noi condividiamo. Ma ora siamo davanti al Tribunale Internazionale Militare e lei è imputato di crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità.
C’è un qualcosa, però, che accomuna le risate che chiudono l’esperienza storica della Germania Est, quelle di Norimberga e tutte le risate del mondo che hanno seguito cose che non facevano ridere. Nessuno di questi - la Volkskammer, Göring, io, voi - aveva la minima idea di quello che stava accadendo attorno a loro. Le ambizioni disattese, i mondi che finiscono, il banco di nebbia nel quale si viaggia. Se la vita che procede a tentoni di noi poveri stronzi non ha bisogno di altre spiegazioni, i libri di storia sì
È il più stupido e arrogante errore di prospettiva che applichiamo al passato, quello di sapere che la gente che ha vissuto e strutturato i maggiori eventi storici capisse quello che stava succedendo intorno a loro. Che i tipi della Volkskammer, Mielke, i giuristi a Norimberga, gli imputati a Norimberga, avessero cognizione del tutto. È il contrario di quello che Michelet faceva nel raccontare la festa della Federazione nel suo Storia della rivoluzione francese. Jacques Rancière in Le parole della storia (il Saggiatore, 1994) spiega come Michelet abolisca ogni rilevamento temporale per assolutizzare, nella frase nominale, il significato dell’avvenimento. “Tutto natura, tutto spirito, tutto verità”, dice Michelet.
“Hai visto un bel mondo”, si risponde a Livorno a quelli come Michelet. Albrecht che si confonde e Mielke che dice di amare tutti gli esseri umani è il sublime di Kant o la tempesta dipinta da Turner, molto più che un’atemporale assolutizzazione dell’avvenimento. E per le mani ti ritrovi un qualcosa di incomprensibile, sbagliato per ogni parametro che non siano gli occhi di un essere umano che guardano quelli di un altro essere umano mentre affonda. Nessuna natura, nessuno spirito, nessuna verità. Solo una risata, al massimo. xD.
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le birre online fanno ridere,
ne hai già due a credito, se passi da Viareggio