Su cosa sia successo il 9 novembre 1989, mentre un muro nel mezzo della città di Berlino veniva giù e la Germania tornava ad essere una sola, se ne potrebbe parlare per ore. La fine della guerra fredda, di sicuro. Lo smantellamento del sistema bipolare che fino a quel momento aveva bilanciato le sorti dell’umanità tutta, non ci piove. L’addio alle degenerazioni di uno stato orwelliano (@i’m begging you please read another book) fino alla macchietta, sì. Poi anche le cose che si rivelano, oltre a quelle che svaniscono: Eric Hobsbawm nota come il crollo di una parte del mondo abbia reso evidente il malessere dell’altra1, e anche su questo ci sono pochi dubbi. Nella riflessione che ho in testa non si tratta però di indagare per delineare, piuttosto di capire come funzioni il nostro sistema digestivo per quanto riguarda episodi storici tipo questo. Una cosa rimane nella nostra testa quando è simbolo di qualcosa, quando la sua anima esce dalla dimensione spazio-temporale che l’ha vista nascere ed esaurirsi e finalmente si rivolge a noi.
Il muro oggi, un giorno lontano dal 1989, ci parla attraverso murales orribili fotografati da turisti altrettanto orribili e ci racconta senza possibilità d’equivoco della vittoria del Bene sul Male, della Luce sulle Tenebre, della Pace sulla Guerra. Quando penso a cosa sia la caduta del muro per la retorica occidentale mi viene in mente uno scambio di battute sottovalutatissimo tra Henry Salt e Willy Wonka nel film del 1971: “Cosa è questa, Wonka? La casa dei divertimenti?”, chiede Salt durante il tour nella fabbrica di cioccolato. “Perchè? Vi state divertendo?”, risponde Wonka. Nella mia testa suona esattamente come la chiacchierata tra Alex e Ariane alla fine di Goodbye, Lenin!: “Ho visto nostro padre stasera” [...] “E gli hai detto qualcosa?” "Buon appetito e grazie infinite per aver scelto Burger King".
Questa restituzione della caduta del muro di Berlino come vittoria del Bene sul Male è fastidiosa solo perché strumentale, interessata e viziata da un’idea di Bene falsa. Intendiamoci: la gioia dei berlinesi riuniti è commovente proprio perché autentica; non è autentica l’identificazione delle democrazie occidentali, in prima fila quella della Germania Ovest, con il Bene. Ma questa è un’altra storia. Quindi sarebbe da accettare tutto ad un solo patto: che non puzzi di plastica bruciata. A me, ad esempio, sembra di aver trovato l’autenticità della mia idea di muro che crolla nella figura di Günter Schabowski, il funzionario del Partito Socialista Unificato di Germania responsabile dei rapporti con i media che quella sera tenne una conferenza stampa con giornalisti di tutto il mondo e, confondendosi, fece crollare 155 chilometri di muro e scomparire uno Stato.
La situazione nella quale si sviluppa la conferenza stampa è quella di un requiem per la Repubblica Democratica Tedesca lungo tutta l’estate e l’autunno 1989, con i suoi cittadini che riempivano le piazze di Dresda, Lipsia e Berlino Est chiedendo più spazi di democrazia o scappavano in Cecoslovacchia, rifugiandosi nell’ambasciata della Germania Ovest a Praga o cercando disperatamente confini aperti con paesi fuori dal Patto di Varsavia; soprattutto in Austria, passando dall’Ungheria. Alla guida del Partito Erich Honecker, la personalità più di spicco della breve storia del socialismo come strumento di governo in Germania, era diventato impresentabile e al suo posto arrivò quello che era stato suo vice, Egon Krenz, più disposto a fare concessioni ai manifestanti. La linea era quella di provare a salvare la baracca senza tirare giù il muro e l’unica maniera per farlo era appunto quella di dare più libertà di movimento verso l’esterno ai propri cittadini. Per capire il clima c’è una frase iconica che Krenz avrebbe rivolto ai quattro burocrati che il pomeriggio del 9 novembre si riunirono proprio per stilare un testo che prevedesse queste concessioni: “Compagni, qualsiasi cosa facciamo è sbagliata. Ma dobbiamo comunque fare qualcosa”2.
Il testo uscito dalla riunione dei quattro concede molto alle richieste dei manifestanti, permettendo sia spostamenti per un breve periodo di tempo sia l’emigrazione permanente; non erano necessarie motivazioni particolari ma si doveva comunque passare dall’autorizzazione statale, che nel testo si prometteva arrivare in tempi brevi. Questa soluzione temporanea, in attesa che venisse sviluppata una nuova legge sulla questione, era stata secretata dai quattro fino alla mattina successiva, sia per essere sottoposta alla revisione del Politburo sia perché nel testo si leggeva che questa sarebbe entrata in vigore das sofort, immediatamente, e quantomeno le guardie di frontiera andavano avvertite. Il testo passa a Krenz, che lo legge ad una riunione del Politburo durante una pausa sigaretta (no joke) mentre la gente si stava facendo i cazzi propri. Mi fanno impazzire i termini nei quali la storica Mary Elise Sarotte descrive il cazzeggio supremo che regnava nel momento topico della storia del comunismo tedesco:
Only about half of the members of the Politburo, most with cigarettes dangling from their lips or fingers, appear to have been standing near enough to Krenz to hear him; the rest were using the break to take a breather elsewhere. The Politburo member responsible for media who would end up announcing the text, Günter Schabowski, was not even present. Indeed, Schabowski had been absent for much of the formal central committee meeting altogether, for unclear reasons.3
Krenz decide di accorciare i tempi, non aspetta la mattina successiva e il testo arriva nelle mani di uno Schabowski completamente ignaro di cosa stia succedendo pochissimo tempo prima la conferenza stampa fissata per le 18:00. Lo riceve direttamente da Krenz, che lo invita a leggerlo in conferenza ai giornalisti di tutto il mondo. Krenz non glielo spiega, lui non chiede e tantomeno lo legge, dando per superflue un sacco di cose: cosa era stato deciso, il fatto che fosse una soluzione temporanea, da quando entrava in vigore, come si gestisce una conferenza stampa internazionale. Schabowski non era un tipo che si preoccupava, ma sull’ultimo punto era particolarmente sicuro di sé: “sapevo parlare tedesco ed ero in grado di leggere un testo ad alta voce senza errori di pronuncia”4, dirà poi in un’intervista. Questo, per Günter Schabowski, significava saper gestire una conferenza stampa internazionale quando sei il portavoce del Partito Socialista Unificato di Germania nel novembre 1989. Mentre ci avviamo alla fine di questa storia non posso negare di star sviluppando un culto della personalità che non conosce raziocinio verso quest’uomo.
Finalmente sono le 18:00 e Schabowski passa quasi un’ora a fare pipponi sul niente più assoluto, con i giornalisti che vorrebbero morire; chi c’era - come il giornalista di Bild Peter Brinkmann - la descrive come “deadly boring”, mentre l’americano Tom Brokaw racconta di come diversi colleghi in sala si erano addormentati mentre Schabowski parlava5. Poi, nel giro di pochi secondi, dopo un’ora di discorsi vuoti, tutto cambia. Il giornalista italiano Riccardo Ehrman fa una domanda sulla possibilità di muoversi verso l’estero per i cittadini dell’Est. Schabowski prova a prendere tempo, poi si ricorda che i fogli che aveva davanti parlavano proprio di questo. Non li trova e va subito nel panico borbottando cose tipo “siamo a conoscenza di questa necessità…ehm…della popolazione…ehm…il Partito sta lavorando ad una regolazione che renderà…ehm…possibile…ehm…emigrare”. Quelli che stavano dormendo ora sono svegli.
Trova il foglio e inizia a leggere velocissimo parole in burocratichese nelle quali spuntano ogni tanto concetti chiari; uno di questi dice che sarà possibile non solo emigrare, ma anche fare brevi viaggi. Se sei di Berlino Est e vuoi prenderti un caffè a Berlino Ovest ora puoi farlo, per capirsi. Sono momenti frenetici. Peter Brinkmann è impazzito e urla: “sì ma da quando? da quando entrerà in vigore?”. Schabowski non capisce più niente, legge confuso il foglio fino a quando il suo sguardo incontra due parole totalmente decontestualizzate, che noi conosciamo già e che sappiamo riferirsi alla mattina del 10 novembre: das sofort, immediatamente. Le legge ad alta voce, d’altronde lui sa parlare il tedesco e leggere un testo correttamente e questa è l’unica cosa che conta nelle conferenze stampa. I giornalisti neanche finiscono di ascoltarlo e corrono a cercare dei telefoni per avvisare le redazioni: stasera finisce la guerra fredda.
Come continua la storia lo sappiamo tutti, le guardie di confine che decidono di non sparare contro i berlinesi che ormai si erano accalcati davanti ai checkpoint e le scene di festa a seguire. Il punto non è questo, il punto è la storia e i simboli e cosa sono per noi e le domande che ora è impossibile non farsi. Se il muro di Berlino che crolla per noi assume senso solo se ce lo figuriamo come la vittoria del Bene sul Male, e quindi come simbolo, di cosa è simbolo un funzionario cialtrone che legge un testo approvato dal Politburo durante una pausa sigaretta?
E se è vero che per T. S. Elliot il mondo non finisce con il rumore di un’esplosione bensì con quello di un fastidioso piagnisteo è vero anche che Elliot è morto prima di vedere Schabowski. Perchè a questo giro il mondo è finito con la confusione, l’inadeguatezza, l’essere completamente altro rispetto a quello che ci si aspetta dai protagonisti della Storia con la S maiuscola. Questo non solo rende il tutto incredibilmente più affascinante e coinvolgente, ma libera il nostro passato da una pesantezza che lo allontana da noi: noi confusi, inadeguati e completamente altro rispetto a qualsiasi cosa con l’iniziale maiuscola. Siamo talmente abituati a pensare che qualcosa di grande debba accadere necessariamente per qualcosa di altrettanto grande che Schabowski non ce lo sappiamo spiegare, non c’è posto per lui nei nostri schemi.
Siamo appesantiti, dicevo. Abbiamo sacrificato la casualità per la causalità e la fine della guerra fredda non riusciamo ad immaginarcela leggera, frivola, scema, come effettivamente è stata. L’aveva capito invece il figlio di Gerhard Lauter, uno dei quattro che scrisse quel famoso testo e che quella sera era a teatro con la moglie. Poi torna a casa, apre la porta e trova il figlio sul divano: “come è andata la serata? Da lavoro hanno chiamato un sacco di volte”. Poi si ricorda: “Ah, e il muro è crollato”6.
E. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, BUR, Milano, 2014.
K. Kaners, How a mistake at a press conference helped topple the Berlin Wall, The World, 2 ottobre 2020.
M. E. Sarotte, The collapse. The accidental opening of the Berlin Wall, Basic Books, New York (NY), 2015.
ivi.
ivi.
ivi; un’altra bella riflessione su quella sera è in M. Meyer, Günter Schabowski, the Man Who Opened the Wall, The New York Times, 6 novembre 2015.
Schabowski uno di noi. Grazie Alessandro