ma tu lo sposeresti un uomo che ne ha ucciso un altro?
una festa d'aprile, le domande sul togliere la vita e il pericolo del non-umano.
Il fatto di aver “lanciato” questa seconda Lezione di nuoto con una clip di Uomini e no, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Elio Vittorini, dovrebbe escludere il fatto che questa seconda Lezione di nuoto inizi con il parlare male del romanzo di Elio Vittorini. Però, davvero, da queste parti va così. Abituatevi. I paradossi sono tipo la mia terza cosa preferita nel mondo (dopo, nell’ordine: 1. arrivare a qualificarmi per l’Europa League con una squadra di terza serie su Football Manager1; 2. pensare che - dati anagrafici alla mano - ci sono buone probabilità che io sopravviva a Piers Morgan in questo mondo).
Comunque, dicevo, dobbiamo fare una riflessione sull’espressione uomini e no. Anzi, questa riflessione è meglio prenderla in prestito da quello che pensava Claudio Pavone, lo storico della Resistenza italiana più coraggioso e illuminante. Pavone - tralasciando il fatto che a lui Vittorini non piacesse proprio -, puntava il dito su una domanda fondamentale: che significa uomini e no? Che i partigiani erano uomini, mentre i fascisti no? Che la Resistenza ha visto contrapporre uomini contro mostri? Sarebbe bello e semplice poter rispondere di sì, ma facciamo davvero attenzione. Rimanere fregati è un attimo.
Che i fascisti fossero mostri, non-umani, bestie salite dagli Inferi che non avevano niente da spartire con i partigiani (anche se magari prima della guerra erano loro vicini di casa, conoscenti, compagni di scuola, amici, fratelli), semplicemente non è vero. Per noi è normale pensarlo per due motivi: 1. i fascisti sono effettivamente disgustosi ed è facile scambiarli per non-umani, ma soprattutto 2. noi non spariamo più ai fascisti ormai da un bel pezzo. Abbiamo perso l’abitudine alla violenza, alla morte, all’odio che ti smuove le budella. Pensiamo, ingenuamente, che ammazzare un fascista sia facile. E lo pensiamo non perchè ci sentiamo Rambo, ma per il fatto che tanto noi in vita nostra a un fascista non spareremo mai (anzi, probabilmente non vedremo mai neanche una pistola da vicino). Di ammazzare un altro essere umano non ne parliamo, Cristo Santo, ma ammazzare un fascista non è mica ammazzare un essere umano.
La gloriosa opposizione al nazifascismo che è uscita vincitrice dai 18 mesi di guerra civile italiana, però, è stata più complicata di così. Non è stata solo la storia di fascisti morti e grida di gioia. È stata anche la storia di mani sporche di sangue che non riesci a smettere di fissare, di uccisioni a sangue freddo che tormentano i sogni per il resto della vita, di innocenze perdute e di domande assordanti. Una domanda del genere la conosciamo grazie alla testimonianza di Tersillia Fenoglio Oppedisano, che a 20 anni si è unita alle comuniste Brigate Garibaldi, a Cuneo:
Allora è stato un guaio combinare il plotone d'esecuzione. Mi ricordo che dopo ho trovato uno dei ragazzi del plotone, che era un mio carissimo amico. Si guardava le mani e mi diceva: "Ma Trottolina, tu lo sposeresti ancora un uomo che ne ha ucciso un altro? Io ho sparato con queste mani, io ho ucciso un uomo!2
Le domande riguardano anche l’altro, il fascista o il nazista che ti ritrovi davanti al fucile. Il fatto che se lo meritasse è fuori da oggi ragionevole dubbio, chiariamoci: lo ha deciso la Storia, l’unico giudice che non sbaglia mai, da sempre inflessibile sul fatto che da una parte ci fosse la parte giusta e dall’altra quella sbagliata; mettere in discussione questo significherebbe rappresentare un serio pericolo per la società civile. Da qui a premere il grilletto, però, ci correva un abisso. La testimonianza di un partigiano che si trova tra le mani un prigioniero (da lui stesso definito “un essere abietto”) è di una profondità che lascia di pietra:
Mi turba l'idea che possa venire ucciso. Come sono contento di non averlo catturato io! Pensando alla sua possibile fine, l'avrei lasciato fuggire. Uccidere in battaglia, ma non a sangue freddo. Forse non ha nessuna colpa di essere chi è, perché la vita è un terribile mistero: chi distrugge un mistero senz'averlo conosciuto?3
L’essere umano che si scopre non all’altezza della sfida consistente nell’uccidere, pur avendo deciso di prendere le armi in una guerra civile, è di un fascino totalizzante, sconvolgente. E non lo è solo quella dei partigiani, ma anche quella di chi sparava su di loro. Mi viene in mente il caso di soldati di leva fiorentini costretti a prendere parte ad un plotone d’esecuzione:
Talvolta si ritenevano autori volontari di quella strage, talaltra vittime della prepotenza degli ufficiali. Urlavano, piangevano e spesso la notte si svegliavano all'improvviso gridando "no, no" o ripetendo gli stessi gridi dei fucilati. Invocavano la mamma, dicevano di non voler morire, emettevano urla di spavento e invocazioni di aiuto4,
oppure l’episodio raccontato da Franco Calamandrei dopo uno scontro a fuoco tra partigiani e fascisti, davanti alle caserme di viale Giulio Cesare, a Roma:
Un fascista passa sparando col mitra lungo il marciapiede. Poi torna indietro, entra [nella fiaschetteria dove si è rifugiato Calamandrei], è giovane, stravolto, con una giacca di pelle nera: e alle donne che lo guardano con terrore e con sdegno dice: - Se sapeste anch’io come sto! Non ne posso più! Che si debba far questo fra italiani! - e scoppia a piangere, butta via l’arma, si accascia a sedere semisvenuto. Le donne commosse gli si fanno d’attorno, lo scuotono, piangono anche loro5.
A questo punto, però, è necessaria una precisazione. “Che si debba far questo fra italiani” era necessario e sacrosanto. L’importanza di chi non è riuscito a sparare non può in nessuna maniera scalfire l’eroismo di chi ha sparato per liberare l’Italia dalle camicie nere e dai nazisti. Parlare di guerra “fra italiani” è giusto6, ma semplicistico e inaccettabile se decontestualizzato; il rischio è che passi l’idea che essere italiani conti di più dell’essere fascisti. La guerra era tra fascisti e anti-fascisti, tra due visioni del mondo diametralmente opposte: una basata sulla prevaricazione, lo sprezzo della vita umana, la violenza; l’altra sulla solidarietà, la vita, l’eguaglianza, la libertà. Il fatto che fossero uomini, che fossero italiani, non va scordato neanche per un secondo; ma non possiamo permetterci neanche che i proiettili sparati dai fascisti vengano considerati gli stessi sparati dai partigiani: i primi sparavano perché la violenza e la sopraffazione facevano (e fanno) parte dell’identità fondativa del fascismo, i secondi sparavano per non sparare mai più. Primo Levi ne I sommersi e i salvati parla della “paradossale analogia tra vittima ed oppressore”, della quale non dobbiamo però mai dimenticare la conclusione alla quale era arrivato lo stesso Levi: “i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare”.
Quindi vi prego, parliamo di fascismo, di Brigate Nere, della corrispondenza tra Mussolini e Graziani. Parliamo di antifascismo, dei meravigliosi diari di Emanuele Artom, della lettera del partigiano Walter Fillak, che prima di venire impiccato a 24 anni scrive alla fidanzata “spero che la brevità della nostra conoscenza diminuirà il tuo dolore”. Parliamo dell’amico di Trottolina che non sa se qualcuna vorrà sposarlo dopo che ha ucciso un uomo, parliamo dei soldati di leva nei plotoni d’esecuzione che si svegliano la notte chiamando mamma. Parliamo di cosa vi pare, davvero, ma parliamo di Storia. Non parliamo di esseri umani contro mostri, non tiriamo fuori i fascisti dalla sfera dell’umano. Gli uomini di mezza età che combattevano per Hitler o per Mussolini sapevano benissimo che il mondo poteva essere qualcosa di diverso, sapevano benissimo cosa era un uomo, lo avevano vissuto, eppure hanno ucciso, massacrato e torturato come se non ci fossero alternative. Non pensiamo, vi prego, che fossero qualcosa di diverso da noi, che noi non saremmo mai in grado di fare le atrocità che hanno fatto loro.
Il rischio è uno, ed è gravissimo: se ci aspettiamo dei mostri, al posto di uomini come noi, è molto facile che la prossima volta che ci si presenteranno davanti non saremo in grado di riconoscerli.
Io ho finito, spero di non essere andato lungo. A questo giro sono stato un po’ pesantuccio, me ne rendo conto, ma giuro che dalla prossima smetto con la Seconda guerra mondiale e parlerò di cose un po’ più leggere (non durerò tanto, metto le mani avanti). Però, sapete, ci siamo incontrati di 25 aprile e poteva andare solo così.
Ah! Prima che mi scordi: se vi è piaciuta la clip di Orsolini e volete vedervi il film, lo trovate completo qui. Per il resto, al solito, se volete dirmi qualcosa ci sentiamo quando volete su Instagram, altrimenti l’appuntamento è al prossimo mese nella vostra Posta in arrivo. Ciaoooooooooooo!
Per chi non è acclimatato con il giocare a videogame manageriali di calcio seguendo precetti marxisti: dalla serie di partenza (minimo la terza!) all’Europa League è lotta di classe, dopo diventa vezzo borghese. Gioco da 10 anni e appena mi qualifico alla Champions chiudo la carriera.
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 466.
C. Pavone, Una guerra civile, p. 465.
C. Pavone, Una guerra civile, p. 438.
C. Pavone, Una guerra civile, p. 243.
La grandezza di Claudio Pavone è stata proprio quella di leggere nella Resistenza italiana 3 tipi di guerre, in un contesto dove una non esclude l’altra: una guerra civile tra italiani, una patriottica contro i tedeschi e una di classe contro la borghesia.