Il dolore, questo sì. Ma solo questo. Il dolore per qualcuno che muore è lo stesso identico dolore per un palestinese e per un israeliano. Questo è un punto che non dovremmo mai scordarci, che dovremmo sempre tenere in considerazione nelle analisi che facciamo del conflitto israelo-palestinese e dei conflitti in generale. Mi viene in mente Simon Wiesenthal quando finalmente rintraccia la madre del giovane SS che proprio a lui, un ebreo ai lavori forzati, aveva chiesto perdono sul letto di morte. Wiesenthal decide di negargli il perdono, di farlo morire colpevole di essere un SS; quell’episodio inizia ad ossessionarlo e si mette alla ricerca della mamma del giovane. Una volta rintracciata, trova questa anziana signora sola al mondo, senza più una casa, un marito o un figlio. La guerra si era portata via tutto il suo mondo. Simon Wiesenthal decide di nascondere alla povera donna chi era stato suo figlio, di non aggiungere dolore al dolore.
Vedevo le sue sofferenze e conoscevo le mie sofferenze. Era questo il legame? E poteva la sofferenza essere un legame? Domande che restavano senza risposta.1
Il dolore, non scordiamocelo mai. Ma anche il fatto che il dolore sia l’unico ed esclusivo elemento assorbente di questa storia, l’unico 0 di questa tremenda moltiplicazione. Tutto il resto si basa su uno squilibrio che fa assomigliare un conflitto più ad un’ingiustizia che ad uno scontro. Uno squilibrio che si declina in qualsiasi aspetto di questa storia, che determina la sua iconografia (una pietra contro un blindato, come la più classica rappresentazione iconografica delle Intifade) e rende scontati gli esiti delle sue battaglie. Uno squilibrio di potenza di fuoco, di accesso alle risorse, di appoggio e riconoscimento e credibilità internazionale2. Ma non solo carri armati contro pietre, la certezza del veto statunitense al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro un de facto isolamento internazionale, la cosiddetta “Holocaust Card” contro il puzzo schifoso del radicalismo islamico. Negli ultimi giorni abbiamo assistito anche all’ennesimo, immenso squilibrio: quello comunicativo.
Chi ha il diritto a parlare, tra Israele e Palestina? Chi è padrone della narrazione, tra Israele e Palestina? Se guardiamo come ci è stato raccontata l’ultima settimana di sangue e distruzione, la risposta appare chiara. Dalla Fiera del Libro di Francoforte che decide di cancellare la premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli3 alla sospensione del calciatore del Mainz Anwar El Ghazi4, colpevole di aver pubblicato su Instagram un messaggio di solidarietà alla Palestina. Chiarissima.
E ancora: i sondaggi di Repubblica sulla preferenza degli italiani tra Israele e Hamas, dove si cancella l’esistenza stessa del popolo palestinese5, alla sistematica censura e shadowbanning di Meta di contenuti critici verso Israele6. Niente elettricità, niente acqua, niente cibo, niente casa, niente vie di fuga, niente riconoscimento come esseri umani (“combattiamo contro animali umani”, ha detto il Ministro della Difesa israeliano Yoav Galant), niente parola. È interessante quindi indagare le strategie alternative che hanno adottato i palestinesi (o chi è solidale con la loro causa) per comunicare al mondo quello che sta succedendo a Gaza, e soprattutto cosa hanno cercato di comunicare. Nei primi giorni del conflitto una piattaforma si è imposta all’attenzione di tutti per particolarità del mezzo e dei messaggi stessi: Queering The Map, “a community generated counter-mapping platform for digitally archiving LGBTQ2IA+ experience in relation to physical space”7.
Del progetto se ne è occupata qualche anno fa Amelia Abrahams per i-D, ricostruendo la storia, il funzionamento e gli obiettivi di Queering The Map. Nata dal canadese Lucas LaRochelle, la piattaforma mostra una mappa (rosa) di Google Maps dove è possibile mettere un pin e condividere in una forma spazialmente visibile la propria “esperienza queer”, qualunque cosa questo voglia dire: “l'interpretazione dell'espressione "esperienze queer" è volutamente vaga: gli utenti di Queering the Map possono scrivere delle loro prime volte (in cui hanno fatto sesso, hanno dato un bacio o in cui hanno avuto una qualsiasi presa di coscienza), di storie di coming out, di connessioni speciali con qualcuno, di momenti che hanno salvato la loro vita e, ancora, di luoghi che li hanno resi ciò che sono oggi”8.
È proprio su questa piattaforma che nei primi giorni di bombardamenti israeliani su Gaza sono apparsi dei messaggi che testimoniavano il dramma umano e personale di un utente, interpretabile però come la sofferenza di un intero popolo. In particolare uno di questi messaggi è diventato virale; geolocalizzato a Jabalya, una manciata di kilometri da Gaza, l’utente scrive di aver “sempre immaginato noi seduti sotto il sole, mano nella mano, finalmente liberi. Abbiamo parlato di tutti i posti dove saremmo voluti andare se ne avessimo avuto l’opportunità, ma ora tu non ci sei più. Se avessi saputo che queste bombe che ci piovono addosso ti avrebbero portato via da me, sarei stato felice di urlare al mondo che ti ho amato più di qualsiasi altra cosa. Ti chiedo scusa di essere stato un codardo”.
Nell’intervista con i-D LaRochelle dice chiaramente che “ci sono molti post sulla mappa che sono esclusivamente il frutto di una fantasia, di un racconto inventato”, e istintivamente mi viene da pensare che lo sia anche questo. Oltre al non trascurabile fatto che se essere palestinese è difficile essere un palestinese queer lo è esponenzialmente di più, ci sono problematiche anche più materiali: la diffusione del sito in Medio Oriente, la mancanza di elettricità per caricare i dispositivi elettronici, le condizioni terribili nella quale versa la rete internet a Gaza. Parliamoci chiaro, però: quel messaggio può essere vero o verosimile, non falso. Proprio come l’orientamento sessuale, il genere ed il sesso del protagonista di questa storia sono a mio avviso secondari. È un messaggio dove qualcuno ama e qualcuno muore, un messaggio di sofferenza e disperazione. È un tentativo di urlare ad un mondo che non vuole ascoltare: guardateci, stiamo morendo. Siamo persone che hanno amato, e che oggi muoiono.
Il messaggio da Jabalya mi ha fatto pensare ad una vignetta di John Broadley, che vive nei miei Elementi salvati di Instagram ormai da qualche anno. Si chiama “Love conquers all (or at least it's better than the alternative)” e ci parla di due amanti che ballano in una strada deserta. Ad un certo punto lei fa notare a lui di come “with the whole world crumbling we pick this time to fall in love”. Con il mondo che crolla, noi abbiamo scelto proprio questo momento per innamorarci. “It’s pretty bad timing” risponde Humphrey Bogart in Casablanca, film dal quale è presa la citazione. È forse per questo che ci ossessionano (o almeno, mi ossessionano) le lettere scritte dai soldati in guerra? Perché siamo alla disperata ricerca di pessimi tempismi e delle loro parole d’amore, che ci mostrino come ci sia un’alternativa per tutti al mondo che crolla?
Walter Ulanowsky ha 20 anni ed è un partigiano nella 3° Brigata Garibaldi “Liguria” quando viene catturato il 10 aprile 1944 a Capanne di Marcarolo. Viene fucilato un mese dopo a Colle del Turchino. Prima, però, scrive una lettera alla sua fidanzata, con la quale aveva un legame strettissimo e l’aspettativa di una vita passata insieme. Walter parla di quello che è di fronte a lui, chiede scusa per il dolore che ha procurato alla fidanzata con la sua scelta d’esser partigiano, si perde a ricordare i suoi occhi azzurri. In questo mondo che crolla, Walter ci crede davvero che l’amore sia l’unica alternativa. E allora prega la sua fidanzata di dimenticarlo, di scordare il loro amore e di andare avanti. Amare quando è possibile, altrimenti continuare ad amare, ecco l’unica alternativa. L’unica maniera per salvarsi. Quella di Walter è una lettera d’amore, non necessariamente del suo amore.
Cara G. mia,
quando riceverai questa mia lettera io non sarò piú vivo. Con la mia morte è stato troncato il mio sincero e grande proposito di farti felice. […] Lo so, cara mia piccola fidanzata, che ti ho dato un grande dolore. Ero cosciente del tuo amore, l’ho sempre letto nei tuoi begli occhi azzurri, l’ho letto nelle pagliuzze d’oro delle tue pupille. […] Mia dolce G. sono le ultime mie parole, le ultime volte che ti chiamo G. e ne sento l’estrema dolcezza. Ti prego di dimenticarmi perché non voglio, come non ho mai voluto, la tua tristezza. Cerca di dimenticarmi e cerca di scordare tutto il nostro amore; esso è stato un sogno, un dolce sogno, troppo bello per continuare ad essere realtà. Sí, era troppo bello. Credi, io non rimpiango di morire; nella mia brevissima permanenza tra i vivi sono stato felice con te, ho toccato i vertici piú alti delle possibilità e delle dolcezze umane. Rimpiango solo il nostro amore che è stato cosí tragicamente troncato.9
La prima volta che leggi la lettera di Walter alla fidanzata ti colpisce come un pugno in faccia, la seconda volta ti salva la vita. Proprio come quella di un altro Walter, il tenente Walter F. Commander, di Buffalo, New York, inviata alla moglie incinta il 3 giugno 1944 mentre si trovava a combattere in Italia. Walter è terrorizzato e solo, la guerra e la sporcizia del mondo lo stanno mangiando da dentro. Si illude che le cose vadano meglio, si preoccupa per l’arrivo del bimbo, si domanda se troverà mai pace in questa vita. Con il mondo che crolla, noi scegliamo proprio questo momento per innamorarci. Sempre la stessa storia, con l’amore, la “realtà del tuo miracolo”, come unica via d’uscita: “tienimi stretto”, prega la moglie. In lei, nel loro amore, la morte non esiste. Walter cadrà tredici giorni dopo, durante un’azione. Fino alla fine pensò all’amore.
Mia carissima Dolly,
il non poterti scrivere più spesso in questi duri giorni è una continua spina nel fianco... Il mio pensiero costante è: questa potrebbe essere la lettera che legge subito prima dell'arrivo del bimbo... Cara, le cose mi vanno un po' meglio adesso. È un inferno, ma ci si può abituare a ciò che si vede e si annusa sui campi di battaglia. Solo nel fondo della mente una voce ripete: è innaturale, non fa parte della vita. E tutta la coscienza ritorna alla realtà del tuo miracolo: non c'è morte in esso... Ci sarà mai pace per me? Voglio rimanere come sono per te, Dolly, ma vedo i cambiamenti che subisco giorno dopo giorno: tutta questa sporcizia e luridume è qualcosa che ti svuota dentro [...]. Cara, tienimi stretto a te stanotte. Non ho mai avuto tanto bisogno di te come in questo momento. Ti amo.10
Una lettera d’amore prima di una morte collettiva (un bombardamento, un movimento di resistenza nazionale, una guerra mondiale…) è, però, a sua volta un’esperienza collettiva. E nonostante le differenze di percorso che hanno portato quelle lettere a noi (quella di Ulanowsky e Fratton erano lettere private, quella su queeringthemap.com è pubblica), quelle stesse lettere ci dicono un qualcosa di collettivo. E lo dicono stravolgendo un qualcosa che diamo per scontato: soffrire è amare, amare è soffrire. Da Louis Aragon (“Il n’y a pas d’amour qui ne soit à douleur”, non esiste amore che non dia dolore) ad Antoine de Saint-Exupéry (“Certo che ti farò del male. Certo che mi farai del male. Certo che ci faremo del male a vicenda. Ma questa è la condizione stessa dell'esistenza”), noi accettiamo il dolore e la sofferenza nell’amore perché riteniamo la prima una diretta conseguenza del secondo. In guerra, dove tutto è estremizzato, amare è morire.
Cosa succede se questo paradigma viene ribaltato? Succede che in guerra non si muore più per amore (amore per la patria o per un commilitone), ma nonostante l’amore. Se prima il punto era l’impossibilità di un amore senza sofferenza, senza sacrificio, senza morte, da Gaza ci arriva un grido che ci dice: qui si muore nonostante si ami. E non ce lo dice solo il palestinese vero o fittizio che cerca un canale di comunicazione alternativo su Queering The Map, ci dicono la stessa cosa operazioni editoriali come Lettere di condannati a more della Resistenza italiana (da dove è presa la lettera di Ulanowsky) o World War II: Personal Accounts (per la lettera di Fratton) o tutte le altre pubblicazioni che si sono occupate di comunicare un dolore collettivo attraverso una tragedia personale.
Che sia attraverso un messaggio, attraverso una gravidanza o attraverso il sacrificio stesso dell’amore al fine di amare di nuovo, il ragazzo palestinese o Ulanowsky o Fratton ci hanno raccontato quanto hanno amato con il solo obiettivo di farci capire quanto stanno morendo. Se però alcune sono sofferenze passate, quella di Jabalya è una sofferenza dell’oggi. Una sofferenza alla quale il mondo ha deciso di assistere in silenzio, qualche volte addirittura di rivendicarla come lotta al terrorismo. Beato chi non si sente colpevole di un mondo che crolla, di noi che si muore e del nostro amore che vive straziato senza di noi. Diceva bene Humphrey Bogart, che pessimo tempismo per amare.
S. Wiesenthal, Il girasole. I limiti del perdono, Garzanti, Milano, 2002.
M. Calculli, La viltà liberale e il paradosso di Israele, rivistailmulino.it, 14 maggio 2021.
S. Percudani, La storia del mancato premio ad Adania Shibli alla Fiera del Libro di Francoforte, rivistastudio.com, 17 ottobre 2023.
D. Fumagalli, Anwar El Ghazi sospeso dal Mainz: il marocchino ha fatto un post in favore della Palestina, eurosport.it, 17 ottobre 2023.
A. Noto, Da Putin ad Hamas: un italiano su sette solidarizza con gli aggressori. È netto il no all’invasione di Gaza, repubblica.it, 14 ottobre 2023.
E. Rosso, Davvero Instagram sta censurando i post pro Palestina? Abbiamo provato a farci bloccare, fanpage.it, 19 ottobre 2023.
dalla bio di Twitter/X di @queeringthemap_
A. Abraham, “queering the map” mette in connessione tutti i momenti queer della vostra vita, traduzione di Benedetta Pini, i-d.vice.com, 30 luglio 2019; per un’analisi sociologica della piattaforma A. Watson, E. Kirby, B. Churchill, B. Robards, L. LaRochelle, What matters in the queer archive? Technologies of memory and Queering the Map, in The Sociological Review, 2023.
P. Malvezzi, G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino, 2003.
G. A. Yarrington (a cura di), World War II: Personal Accounts: Pearl Harbour to V J Day, Lyndon Baines Johnson Foundation, Lyndon, Texas, 1992.