Essere cresciuto in una città che basa la propria identità in maniera esclusiva su di un bolscevismo folkloristico ed aver frequentato un liceo classico, se sei nato perfettamente a cavallo tra Generazione Y e Generazione Z, può aver significato solo una cosa: tutta la tua adolescenza è stata accompagnata da quello che era successo il 20 luglio 2001 in piazza Alimonda a Genova. Dalla morte di Carlo Giuliani per mano del carabiniere ausiliario Mario Placanica. Ogni adolescenza ha bisogno di una fede, ogni fede ha bisogno di un martirologio. Carlo Giuliani, per noi troppo piccoli nel 2001 ma quindicenni pronti ai nastri di partenza in occasione del decennale del suo assassinio, è stato tutto. Con Roberto Gañán Ojea in arte Pulpul che canta in italiano basta così / c’è da ammassàr la bestia io ci sono cresciuto nel vero senso della parola.
Un espanso e sudaticcio rancore verso le forze di polizia è stato tutto quello che mi è interessato per gran parte della mia adolescenza, e chiaramente è stato un lascito di quel decennale, di quel luglio 2011. Ripenso con imbarazzo a quando incalzavo con riferimenti all’improbabile mortalità del lancio di un estintore vuoto mio zio poliziotto durante i pranzi di Natale, o al tono supponente con il quale una volta ho risposto ad una richiesta assolutamente legittima di un vigile urbano. Un vigile urbano, cristo santo. Vivevo anche i miei piccoli conflitti personali: mi piaceva molto Signor Tenente, brano che Giorgio Faletti portò a Sanremo 1994 e che denunciava le condizioni nelle quali dovevano lavorare i Carabinieri impegnati nella lotta alla mafia. L’ascoltavo, ma con la modalità in incognito. La modalità in incognito, cristo santo. Lo facevo per non tradirmi.

Dieci anni dopo il me quindicenne non ascolto più gli Ska-P, e nemmeno Giorgio Faletti. Ma se dovessi farlo, lo farei prendendomi le mie responsabilità: come dice il Jules Bonnot di Cacucci, in ogni caso nessun rimorso. Non so dove sia finita la mia decina di magliette dedicate a Genova, non rompo più il cazzo a mio zio durante i pranzi di Natale e quando devo avere a che fare con le autorità sono tutto un dare del lei e sorrisoni. Questo in realtà è perché nella mia testa devo piacere a tutti per forza o accadrà qualcosa di terribile, e la mia maniera è una servile reverenza verso chiunque, anche se sei tipo Hitler. Le forze di polizia continuano a non piacermi, ma per non mancare l’appuntamento con “si nasce incendiari si muore pompieri” ho sviluppato un irragionevole statalismo: i cantieri per la strada mi danno serenità perché staranno aggiustando qualcosa che prima era rotto, o rendendo bello qualcosa che prima era brutto. Fa ridere non solo perché non mi caratterizza una particolare fiducia nei sistemi economico-produttivi che modellano i nostri stati, ma anche e soprattutto perché sono italiano.
Ora che non sono più quelle cose ridicole ma sono altre cose ridicole, posso provare a riflettere in maniera più o meno sensata sulla mia esperienza con quella storia e in che maniera quella fosse un’anticipazione dell’esperienza che avrei vissuto - e che mi trovo a vivere - con molte altre storie, in particolare con le storie del secolo scorso. Perché la storia di quel 20 luglio 2001 e di quello che è stato costruito attorno alla figura di Giuliani mi ha sempre profondamente interessato, non solo agitato da un punto di vista umano e politico. Qui non sto parlando di cosa rivendicavo e rivendico parlando di quella storia, ma cosa mi rendeva così difficile smettere di parlarne. Ad ogni modo, nonostante sia scientificamente improponibile in quanto un esercizio di studio retrospettivo (io so cosa mi ossessiona oggi delle storie che mi appassionano e vado a cercare cosa mi ossessionava ieri di una storia che mi appassionava), magari è interessante e magari pure divertente. Sempre in una concezione di divertimento particolarissima, eh. Vi anticipo che anche a questo giro si parla di drammi e crimini contro l’umanità, come buona abitudine di questo spazio.
Non essendo mai stato un tipo con il pallino degli scontri di piazza, non mi interessava quella componente; delle componenti politiche in gioco e delle tattiche di guerriglia urbana in quel giorno ho sempre saputo molto poco. Non mi interessava neanche “la più grande sospensione dei diritti umani dalla Seconda guerra mondiale” in sé, se devo essere cinicamente onesto. Quella me la sapevo spiegare, mi tornava benissimo - anche quando avevo 15 anni e non mi tornava niente nella vita, non che ora vada meglio - che il capitale difenda sé stesso attraverso un uso senza limiti della forza, e mi tornava benissimo anche che i poliziotti si siano trasformati in bestie assetate di sangue, come poi mi sarebbe tornato il motivo per il quale “uomini comuni”1 sono diventati assassini di ebrei. Quello che mi rapiva intellettualmente di quella faccenda era la dimensione dell’uomo colpevole; un’assenza tangibile, che occupava tutto lo spazio predisposto alla guarigione di quelle ferite. Era il mio primo incontro con il male e con gli uomini che fanno del male.
Questa assenza mi disorientava, e le cose che mi disorientano solitamente mi regalano un’ossessione. Per questo anche oggi, quando penso a quei fatti, prima di tutto mi viene in mente il Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato Adriano Lauro che, con Carlo Giuliani appena morto, urla ad un manifestante “Sei stato tu! Con il tuo sasso!”, oppure la funzionaria della Centrale Operativa che commenta con “speriamo che muoiano tutti […]. Tanto uno già vabbè… e gli altri… uno a zero per noi”. Il ruolo della colpa in questa storia mi tormentava più della morte di un ragazzo di 23 anni, perché mi regalava dei mostri. E io ai mostri non ho mai creduto. Per questo tormentavo il poliziotto più umano che io conoscessi, zio. E per questo ascoltavo incantato Faletti che mi faceva notare come anche i poliziotti fossero umani. Poi nella vita mi sono ritrovato a studiare la storia del Novecento, che conosce il fatto suo in quanto a sospensione dei diritti umani e tragedie e colpe. Noto solo ora che quello che cercavo erano uomini e donne colpevoli, per capirli. Cosa dicevano e cosa pensavano e come vivevano con la loro colpa. Era questo il lascito della mia ossessione adolescenziale.
Inseguire la dimensione della colpevolezza in un secolo costellato di crimini e tragedie ti fornisce uno prospettiva interessante, una prospettiva che mette l’uomo e la donna prima delle loro azioni. O che comunque non cancella la dimensione umana dagli atteggiamenti criminali, ma anzi la pone in una posizione integrativa, complementare. Per farvi capire, nelle 700 e passa pagine che costituiscono il capolavoro di Mark Mazower Hitler’s Empire, un’interessante interpretazione dell’autore dell’esperienza nazista in Europa come volontà di instaurare un “impero coloniale” simile a quello che inglesi e francesi avevano instaurato in altre parti del mondo, uno dei passaggi che ho trovato più interessanti è totalmente slegato dalla tesi del libro:
Helmut von Moltke, esperto di legge internazionale dell’Abwehr [l’intelligence nazista], passava le notti insonne. “Quello che mi ricordo degli ultimi giorni non è niente di buono”, scrive nel suo diario a Novembre. “Prigionieri russi, ebrei evacuati, prigionieri russi, ostaggi uccisi, la graduale estensione in Germania delle misure “testate” nei territori occupati, ebrei evacuati, prigionieri russi, una clinica dove gli uomini delle SS che hanno avuto un collasso psicologico mentre uccidevano donne e bambini vengono curati. Questo è quello che il mondo ha visto negli ultimi due giorni.2
Settecento pagine di analisi dei metodi di occupazione e sterminio dell’impero nazista e mi sono scoperto rapito dai collassi psicologici. È l’esistenza di una colpa, è - appunto - l’uomo colpevole. Non l’ammissione di responsabilità, bensì la dimensione della colpa. L’ammissione di responsabilità è incredibilmente più complicata, è legata costruzioni culturali come il Kameradschaf e il Volksgemeinschaft, due miti traducibili come “cameratismo” e “comunità” talmente totalizzanti nell’esperienza tedesca in guerra da essere le lenti con le quali i soldati tedeschi vedevano il mondo, costruivano la loro lealtà e, alla fine, rivendicavano una sovranità morale nel giudizio delle loro azioni. La colpa, invece, è più semplice e banale perché più umana: è un collasso psicologico.
È un qualcosa trasmesso splendidamente anche da The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, che racconta il massacro di un milione di “comunisti” tra il 1965 ed il 1966 da parte dell’esercito indonesiano e gangster con l’appoggio degli Stati Uniti d’America. I microfoni e le telecamere sono tutte per Anwar Congo, uno degli attori principali di quei massacri, che viene incoraggiato a raccontare il suo punto di vista attraverso delle macabre messe in scena degli avvenimenti per le riprese di un film. Alla fine Anwar Congo, un uomo estremamente orgoglioso e celebrato come una rockstar nel suo paese, è talmente colpevole che non riesce a smettere di vomitare, con la chiara e serena consapevolezza che non pagherà mai per i suoi crimini.
In my dreams they have threatening voices. They're like ghosts who hate me. They laugh, but frighteningly.
John Caroll dice che la colpa è “l’eminenza grigia dietro i personaggi, la storia e la cultura”3, e la sua assenza è per forza di cose disorientante. Un altro Oppenheimer, Julius Robert questa volta, il direttore del laboratorio che sviluppò la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945, è per me un’ossessione molto simile a quella del G8. Se, come disse lo stesso Oppenheimer, quel giorno “la fisica ha conosciuto il peccato” la sua dimensione di peccatore è sempre stata particolare e refrattaria alla colpa. Del giorno nel quale ha assistito primo test nucleare nel deserto del New Mexico, disse che
We knew the world would not be the same. A few people laughed, a few people cried, most people were silent. I remembered the line from the Hindu scripture, the Bhagavad-Gita. Vishnu is trying to persuade the Prince that he should do his duty and to impress him takes on his multi-armed form and says, “Now, I am become Death, the destroyer of worlds.” I suppose we all thought that one way or another.
Un Generale dell’esercito presente con lui al momento dell’esplosione, notò come dopo il “Now!”, nella sua faccia si notò una tremenda espressione di sollievo. Come scrive James A. Hijiya, “tremendous relief when viewing death, the destroyer of worlds, is a sign of serenity, a conviction of right”4. La serenità nella bomba atomica o in un manganello tonfa tenuto al contrario in piazza a Genova. Oppure ancora il collasso psicologico ed il vomito incontrollato. I peccati ci regalano i peccatori, e i peccatori ci regalano l’uomo in una posizione antagonista assoluta, che non conosce barriere se non quelle dell’io. L’uomo che sfida sé stesso. È chiaro che un quindicenne ci impazzisca per questa roba. È chiaro che si farà delle domande alle quali non potrà rispondere, andrà in confusione, aprirà la navigazione in incognito e ascolterà Faletti. E anni dopo la sua lista di film da vedere su Amazon Video sarà praticamente solo drammi sull'Olocausto. Non è colpa mia, se vogliamo dirla tutta.
Ogni 20 del mese
A trovare il tuo amore
A portare da bere
Al tuo piccolo fiore
E che gli uomini sappiano
Della differenza
Tra una mano che offende
E la resistenza
C. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino, 2004.
Mark Mazower, Hitler’s Empire. Nazi Rule in Occupied Europe, Penguin Books, London, 2009 (traduzione in italiano mia).
John Carroll, Guilt: The grey eminence behind character, history, and culture, Routledge, London, 1985.
James A. Hijiya, The Gita of J. Robert Oppenheimer, in Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 144, No. 2, giugno 2000, pp. 123-167.