Fino ad un certo punto la maniera nella quale tutti e tutte noi parlavamo dei Mondiali di calcio che si stavano disputando in un’amabile teocrazia sunnita nella penisola arabica era molto simile. Quel torneo era una schifezza, inguardabile. Era inguardabile per tutti, anche per chi poi nei fatti non si è perso una partita, e lo era per diversi motivi. Per qualcuno era inguardabile per i seimilacinquecento operai morti nella costruzione degli stadi. Per qualcuno era inguardabile perché i diritti delle donne, degli omosessuali, i rapporti con i talebani afghani, l’impatto ambientale eccetera eccetera eccetera1. Per qualcuno era inguardabile perché non giocava l’Italia. Per qualcuno era inguardabile perché Eric Cantona era una brava persona (ed il Tenente Colombo la miglior serie televisiva della storia2). Per qualcuno era inguardabile perché Gianni Infantino non era una brava persona. Per qualcuno, infine, era inguardabile perché sognava una libertà diversa da quella islamista ed un calcio diverso da quello della FIFA.
Poi qualcosa è cambiato, ed è cambiato durante la finale del torneo. Nonostante il Qatar rimanesse una monarchia assoluta e gli operai morti rimanessero morti, quei mondiali sono diventati impossibili da non guardare. I talenti generazionali argentini e francesi in campo hanno dato vita ad un’incredibile manifestazione terrena del bello, ed il bello ha travolto tutto quanto. Una risacca che pulisce la battigia da ogni parola scritta con dei bastoncini, che siano oscenità o parole d’amore. Al passaggio di Messi nel contropiede che porta al goal di Di Maria, oppure all’impostazione del corpo di Kylian Mbappè nel goal del 2-2, abbiamo tutti pensato - o meglio, io e probabilmente chi viaggiava sul mio stesso tasso alcolemico - al principe Myškin ne L’idiota di Dostoevkij, quando dice che Мир спасёт красота, che il mondo lo salverà la bellezza (e non i boicottaggi), una bellezza salvifica capace di ordinare il caos. La finale dei Mondiali in Qatar è stata bella, forse la finale di un mondiale di calcio più bella della storia, e ciò che è bello è buono e ciò che è buono e bello è vero.
La bellezza in Dostoevskij però non è solo quella di Myškin, quella che Sara Verghi su Est/ranei riconduce alla triade bellezza-bontà-verità3. Nel romanzo questa complessità viene cristallizzata nei personaggi di Ippolit e Adelaide; il primo incalza il principe mettendo in discussione il concetto stesso di bellezza e aprendo ad una pluralità di bellezze, domandando “ma quale bellezza salverà il mondo?”; la seconda, invece, mina il duplice significato della parola мир in russo: sì mondo, ma anche pace. Se Myškin intendeva dire che la bellezza salverà un qualcosa che significa sia mondo che pace, e quindi che “l’allusione alla bellezza può essere interpretata come rimando a qualcosa di armonioso e di ordinato”, Adelaide mentre guarda una foto di Nastas’ja propone un tipo di bellezza agli antipodi, distruttrice e sovvertitrice: “Una bellezza simile è una forza. Con una simile bellezza si può rovesciare il mondo!”
Il principe Myškin applicato alla finale dei Mondiali è convincente ma noioso, come è intrinsecamente noiosa qualsiasi cosa che non tenda allo stravolgimento del suo ambiente: Messi che indossa il bisht - prestigiosa mantella della tradizione araba - mentre solleva la coppa non è scandaloso, solo di una noia mortale. La bellezza della quale parla Adelaide, quella sovvertitrice, non ha il compito della validazione ma quello dell’espressione. È un’espressione limitata e limitante però, ingabbiata nella perfezione estetica di Nastas’ja Filippovna. Nel secolo scorso, invece, c’è stata un’alternativa: un pallone - un Adidas Telstar, per essere precisi - che rotolando in una porta di un campo della città di Amburgo ha consacrato il brutto e l’inadeguato come sovvertitore. È stato un pallone fatto rotolare in rete da un ragazzo che si chiamava Jürgen Sparwasser, un cittadino della Repubblica Democratica Tedesca.
Era il mondiale di calcio del 1974 e si giocava nella Germania Ovest: Monaco di Baviera, Berlino Ovest, Amburgo, Dortmund, Düsseldorf, Gelsenkirchen, Francoforte sul Meno, Hannover e Stoccarda. Nel gruppo uno c’erano la Germania Ovest padrone di casa, l’Australia, il Cile di Pinochet e… e la Germania Est. Le nazionali maggiori dell’Ovest e dell’Est della Germania non si erano mai incontrate su un campo da calcio e lo fecero proprio nell’ultima partita del girone. Una partita relativamente inutile, a dirla tutta: entrambe le squadre erano già qualificate al turno successivo e in ballo c’era solo il primo ed il secondo posto.
Io non so quanti di voi siano a proprio agio con il calcio di metà anni ‘70, ma forse avete sentito dire nomi come Gerd Müller, Sepp Maier, Paul Breitner e Franz Beckenbauer. Sono stati tra i primi calciatori dalla fama sconfinata, vicini al concetto di notorietà legata al calcio che conosciamo oggi, ed erano tutti in campo quel 22 giugno 1974 ad Amburgo. Avevano tutti la maglietta della Germania Ovest, una maglia bianco-nera elegante e austera e adatta a dei vincitori. Dall’altra parte invece c’erano dei perfetti sconosciuti, figli di un Paese che non piaceva a nessuno e con indosso “una tuta azzurra semplice semplice, come avrei potuto averla io, con una scritta enorme DDR, che sembrava cucita dalle mamme dei giocatori, proprio come la mia mamma cuciva il numero sulla maglia”4.
La vinse la Germania Est quella partita, uno a zero. Il punto però non è questo, il punto non è mai come finisce una cosa (tranne il punto inteso come segno di punteggiatura, a pensarci bene). Il risultato finale è ingannevole al fine di dare significato a questa serata di fine giugno, perché superficiale. La Germania Est che sconfigge la Germania Ovest è sovvertimento e distruzione, è la bellezza di Nastas’ja, solo nei novanta minuti di gioco, solo fino a quando quei ventidue calciatori sono rimasti in campo. La vittoria consentì alla Germania Est di passare il girone per prima, ma questo paradossalmente la obbligò ad un continuo di torneo più difficile: incontrò i Paesi Bassi di Johann Crujif, il Brasile di Rivelino, l’Argentina di Mario Kempes e tornò a casa con due sconfitte ed un pareggio. La Germania Ovest pur avendo passato il girone come seconda incontrò Svezia, Jugoslavia e Polonia: tre partite e tre vittorie. Alla fine lo vincerà quel torneo, in finale proprio contro i Paesi Bassi. Se ci concentriamo sul significato di quella partita, quindi sullo scontro tra ideologie, chi ne sia uscito vincitore è reso evidente dai murales della East Side Gallery: al tribunale della storia non interessa il calcio.
Cosa c’è da raccontare di quella partita, se il risultato non vale? È un po’ come nel dialogo tra Eric Bishop ed Eric Cantona immaginato da Ken Loach in Il mio amico Eric: “Allora, il momento più bello di tutti?” “Non è stato un goal”. No che non è un goal, di che stiamo parlando. Se si potesse leggere il calcio attraverso i suoi goal si potrebbe leggere la vita attraverso i suoi successi, e non si può. Per il Cantona di Ken Loach il momento più bello è stato un passaggio, quello a Denis Irwin in una bellissima azione contro il Tottenham nel 1993. Perché “devi fidarti dei tuoi compagni, in ogni caso. Altrimenti tutto è perduto”. Qui invece è la maniera con la quale Jürgen Sparwasser mette a terra il pallone lanciato da un compagno, prima di segnare il vantaggio: lo controlla con la faccia, mentre corre. In una delle partite di calcio dal significato che più trascende il semplice sport, l’ordine delle cose - il più forte che batte il più debole, il sistema capitalistico che prevale su quello socialista - viene sovvertito attraverso un esercizio puramente anti estetico.
La vittoria del debole sul forte non è sempre e comunque un racconto biblico, non è necessariamente Davide contro Golia, non significa sempre qualcosa. Se Davide e la sua fionda uccidendo Golia impedirono l’invasione di Israele da parte dei filistei, Jürgen Sparwasser non salvò alcuna terra promessa; anzi, pochi anni dopo quella partita sarà lui stesso a scappare in Germania Ovest per fare l’insegnante di ginnastica. Ma qualcosa è comunque successo, ed è successo grazie al brutto. Per novanta minuti lo stato esistente delle cose è stato sovvertito, ed è stato sovvertito grazie al brutto. Un lampo di inadeguatezza con la quale la storia del mondo - una storia dove ciò che è bello è buono e ciò che è buono e bello è vero - dovrà per sempre fare i conti. Una cosa brutta e quindi non santa e quindi falsa.
Per questo più che Davide contro Golia quando penso a Jürgen Sparwasser mi viene da pensare al nonno Vilém di Treni strettamente sorvegliati, capolavoro di Jiří Menzel tratto dal romanzo di Bohumil Hrabal5. Quando l’esercito nazista entrò in Cecoslovacchia, Vilém - che era un mago - fu l’unico a opporre resistenza: si piazzò davanti ad un carrarmato tedesco e provò a bloccarlo con il pensiero e la forza della suggestione. I suoi pensieri erano come proiettili: “Invertite la marcia e tornate a casa vostra”. Il primo carro si fermò, e tutta la colonna di mezzi dietro di lui a seguire. Si creò uno stallo tra il soldato alla guida e Vilém, che non aveva intenzione di spostarsi dalla strada. Poi il mezzo riprese la marcia, investendo e uccidendo sul colpo il nostro eroe: dopo di quello, nessun altro ostacolo rimaneva sulla strada del Reich.
Questo è stato il goal di Jürgen Sparwasser: un mago che ferma una colonna di soldati nazisti con il pensiero, il comunismo che si impone sul capitale nel salotto di casa sua, una squadra con le tute blu che sembrano cucite dalla mamma che batte una squadra di fuoriclasse. E tutto questo è successo grazie al brutto, un brutto senza Dio e senza verità. E infatti evanescente, come tutte le leggende. Il goal di Jürgen Sparwasser riafferma il potere sovvertitore della casualità e dei controlli di faccia e dell’inadeguato nel calcio come nella vita come nella storia. Una nota stonata, un qualcosa che non sarebbe dovuta esistere, un errore, capace di rovesciare il mondo per novanta minuti.
Potete trovare una panoramica di quanto ha fatto schifo Qatar 2022 qui, a cura della redazione de l’Ultimo Uomo.
A. Vinci, Mondiali, Cantona si scaglia contro Qatar 2022: «Aberrazione ecologica e orrore umano, meglio il tenente Colombo», corriere.it, 15 settembre 2022.
S. Verghi, La bellezza nella cultura russa e ne L’Idiota di Dostoevskij: salvezza o perdizione?, Est/ranei, 16 maggio 2020.
F. Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, Torino, 2013.
B. Hrabal, Treni strettamente sorvegliati, E/O Edizioni, Roma, 2014,