una storia di sentimenti supremi.
empatia e comprensione quando tu parti ma non sai come arrivi
La maniera più facile per far diventare la Resistenza parole vuote condite da fazzoletti rossi, la via più veloce per trasformarla in una partita di Risiko nell’italia centro-occidentale degli anni ‘40, è non ascoltarla. Un’adesione acritica alle sue ritualità, ai suoi colori, alle sue canzoni, ai suo nomi e ai suoi slogan significa perdere un’ottima occasione - l’ennesima - per non riconoscere il giusto valore a quello che alla fine dei conti la scelta partigiana è stata: un’accettazione del sacrificio supremo in nome di un bene reputato come supremo. La questione qui, come si intuisce, è cosa significhi ascoltare la Resistenza. È assolutamente legittimo intenderla come un manuale su cosa fare quando ci si sveglia una mattina e si trova l’invasor, o la storia di vecchie cascine mutate in caserme, o ancora di fedi che diventano leggi dell’avvenir. Se devo essere onesto però, io sono interessato ad altro; non sono immune al fascino dell’epica, sono solo scettico sul suo essere sufficiente come strumento di comprensione dell’esperienza resistenziale.
Prima di tutto, non scordiamoci che la Resistenza è stata una guerra. E, è bene specificarlo subito, le guerre non sono mai soltanto resistenze all’invasor, vecchie cascine che diventano caserme o fedi in grado di imporsi come leggi dell’avvenir. E le guerre non sono neanche solo battaglie, piani per i rifornimenti, paracadutisti dietro le linee nemiche. La guerra è soprattutto l’uomo e la donna nel contesto a loro più sfavorevole, nel quale lo spirito di adattamento fatica di più. Dove si viene uccisi e si deve uccidere. “La terrificante prospettiva della guerra”, ci dice James Hillman, “ci porta a un momento cruciale della storia della psiche umana, un momento in cui l’immaginazione diventa il metodo di elezione e l’analisi psicologica applicata empaticamente, appresa in un secolo di pratica sul campo, diventa più importante dell’obiettività scientifica privilegiata in passato”1. Un’analisi psicologica che ci possiamo permettere di adottare perchè convinti che uno storico debba “aprirsi senza riserve ai risultati e ai metodi di altre discipline”2 e perchè chi ha l’ambizione altissima di comprendere l’uomo e la donna nella storia non può seriamente pensare che il tutto funzioni a compartimenti stagni, che la storia sia la storia, la psicologia la psicologia e la sociologia la sociologia.
La questione è qui, per quanto mi riguarda: il sentire empatico. L’unica maniera per cavare dalla Resistenza qualcosa di davvero attuale, davvero in grado di cambiare la prospettiva che si ha del mondo, io l’ho trovata nell’ascoltare le paure che ti fanno venire il mal di pancia e i dubbi che ti tolgono il sonno di tanti ragazzi e ragazze che siamo abituati ad immaginarci con i fucili in mano mentre scendono dai monti, nelle loro meritate agiografie. Sono stati anche quello, e grazie a Dio lo sono stati, ma per me non è quella la chiave di lettura più illuminante per capire chi erano e dove volevano andare. I partigiani, prima che guerriglieri, erano in grandissima parte gente che fino a qualche mese prima non avrebbe mai pensato di uccidere qualcuno a sangue freddo, di doversi figurare il vicino di casa come un nemico mortale, di esser là ad organizzare un attacco ad una colonna di soldati tedeschi. È la dimensione umana a superare nel miglior modo possibile la prova del tempo, non l’epica. Sono domande come quella che un partigiano amico suo fa a Tersillia Fenoglio Oppedisano, 20enne partigiana comunista alla quale era stato dedicato il titolo di una vecchia puntata della newsletter: “Ma Trottolina, tu lo sposeresti un uomo che ne ha ucciso un altro?”3.
Sono domande che ti vengono sbattute in faccia da una storia che sembra andare controcorrente: non era lo storico, non eravamo tutti noi, a fare domande alla storia? Ora è la storia che le fa a noi? Come funziona, questo mondo impazzito? Mi vengono in mente altre domande, come quando Roberto Battaglia si chiede “ma come si può essere così felici perchè si è ucciso degli altri uomini?”4; o altre riflessioni su cosa volesse dire prendere un’arma in mano, che danno a quell’arma il peso che merita, ovvero tutto il peso del mondo. Parlando dell’omicidio del direttore delle Officine Reggiane Arnaldo Vischi, ucciso dopo la fine della guerra da un ex partigiano5, quello che era stato un suo compagno d’armi disse che
Il partito nelle sue lotte ha sempre delle perdite, a seconda delle fasi, e vi fu una perdita anche quella. La lotta armata ad alcuni compagni ha distrutto la loro capacità di trasformarsi insomma. Perchè tu non sai l’effetto che potrà avere su di te uccidere, non sai quali ripercussioni psicologiche può produrre, tu parti ma non sai come arrivi. E qualche compagno l’abbiamo perso in quel modo lì. Finiscono per perdere la testa, non vedono altro che la soluzione armata.6
Non solo il trauma del sangue fine a sè stesso è bisognoso di un approccio empatico per una comprensione della sua dignità di agente storico, ma anche il trauma della responsabilità. Il già citato Roberto Battaglia, storico dell’arte nel mondo prima della guerra e al comando della divisione Lunense delle Brigate Giustizia e Libertà nel mondo dell’inimicizia totale tra gli uomini, doveva occuparsi di giudicare un industriale che aveva collaborato con i tedeschi, o “un disgraziato contadino che ha fatto da guida ai tedeschi nel rastrellamento per un po’ di denaro”, oppure ancora “una donna che conviveva con i tedeschi e ha denunciato i paesani che la calunniavano come meretrice”. Parla del suo fastidio nel notare come questi si aspettassero un compromesso, di cavarsela con una mazzetta, “convinti che ciò che hanno fatto non avrebbe avuto conseguenze in questo paese da carnevale”; poi parla della loro paura e di quella dei partigiani che devono giudicarli, del dolore di non potersi permettere l’essere solo un uomo con le sue debolezze, dell’avere delle responsabilità di fronte alla storia. Il passaggio finale è piuttosto lungo, ma fai fatica a togliertelo dalla testa:
Nessuno sa niente, nessuno è colpevole. Tutti sono stati costretti, tutti ignoravano le conseguenze delle proprie azioni. Chi giudica, esita allora perchè non è di un giudice umano indagare le intenzioni, ma di un uomo dubitare. Sì, ammetto almeno in parte la loro incoscienza, dell’industriale che continua a fare i suoi interessi, del contadino che denuncia per un po’ di denaro, della donna che si vendica dell’abbiezione in cui è caduta. Ma non è proprio questa incoscienza che ha condotto alla rovina il mio paese, il pensare solo a se stessi, l’ignorare l’esistenza di una società verso cui si risponde? […] Posso fucilarli perchè privi di questa coscienza che manca a quasi tutti gli italiani, lasciare orfani i figli perchè il padre era uno dei tanti che ha visto nella vita pubblica un semplice campo per i propri interessi e non s’è mai domandato se il governo fosse giusto o ingiusto, ma semplicemente se gli convenisse o no porsi al suo servizio? Muoiono con gli occhi chiusi (anch’io potevo essere uno di loro) senza comprendere - in ciò sinceri - che cosa significhi “tradimento”. Eppure hanno visto i tedeschi e i fascisti massacrare donne e bambini innocenti e nemmeno su ciò hanno sentito il bisogno di meditare. Anzi, qualcuno s’è iscritto al fascio repubblicano perché questo era l’unico modo nel suo comune per avere la licenza di caccia. Oh, poter ridere di ciò, magari di disgusto e di rabbia, e non essere qui a giudicare! Per me sarebbe più semplice di lasciarli in libertà oppure delegare ai miei uomini il diritto di chiedere grazia. Ma son io che debbo decidere, ma sarei un vile di fronte ai miei uomini, se ne compromettessi uno solo per questa debolezza. Non è sulle coscienze che debbo giudicare ma sui fatti, tenermi soltanto a questi. Non punirli per ciò che hanno fatto sarebbe dubitare delle ragioni stesse per cui combattiamo, ammettere io stesso che nel mio paese non può esistere una fede e una giustizia. Così nel giudicare i condannati si soffriva alle volte quanto essi, si era presi dalla loro stessa angoscia; poi la legge scritta entrava negli animi, li rassicurava, li rendeva impassibili. In una vita così dura in cui vedevamo scomparire giorno per giorno tanti di noi, già generosi di giovinezza, vivere o morire diventavano funzioni naturali come il dormire o lo star svegli.7
Ho quasi finito, spero siate ancora con me nel ragionamento. L’ultimo mio punto, quello forse più complicato da digerire, è che il sentire empatico che ci suggerisce Hillman non sia una roba che alcuni meritano e altri no. La tendenza deve necessariamente essere quella di comprendere, di sentire, anche quelli che hanno combattuto dalla parte schifosa della storia, sia stata questa una conseguenza di una scelta sbagliata o di una vita sbagliata. L’empatia, e quindi la disperata ricerca di comprensione, non conosce divise o fazzoletti al collo. Mi ghiaccia il sangue il giovane fascista che urla “se sapeste anch’io come sto!” a delle donne che lo guardavano “con terrore e sdegno”, e che poi scoppia a piangere semisvenuto (e le donne piangono con lui)8. “Se sapeste anch’io come sto” è un j’accuse contro un’empatia come strumento d’analisi applicata come se fosse un croccantino e la storia un Golden Retriever. Un premio che dietro nasconde una scappatoia: quella di umanizzare solo chi ci fa comodo, quella di farsi meno domande possibili.
L’empatia non è darsi la mano, non è accoglierti nella mia casa. Perchè casa è valori e idee, convinzioni e riflessioni. L’empatia non è un colpo di spugna sulle responsabilità storiche di fronte alla società e all’umanità, figuriamoci; l’empatia è problematizzare quelle responsabilità, darne una profondità, capirne gli attori e le attrici. L’empatia non è pacificazione e tantomeno parificazione. Quando c’è comunanza di valori, di idee, di convinzione e riflessioni, quando si arriva quindi a questa festa d’Aprile, ci possiamo permettere di passare dalla comprensione, quindi dall’empatia, alla partecipazione; qui a me viene da pensare a Milan Kundera. Ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, per spiegare quello che lega Tomáš a Tereza, Kundera ci parla di compassione; non nella sua forma che conosciamo noi però, con le nostre lingue derivate dal latino dove “compassione” (com + passio, ovvero sofferenza) significa “partecipare al dolore altrui”. In lingue come il ceco, il polacco, il tedesco o lo svedese, dice Kundera, la parola compassione si esprime attraverso il solito prefisso “con” accompagnato qui non più da “sofferenza” bensì da “sentimento” (soucit in ceco, wspol-czucie in polacco, Mit-gefuhl in tedesco, med-kansla in svedese). La compassione, il co-sentimento, diventa quindi “vivere insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore”.
Kundera la chiama poi “la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia delle emozioni”. “Nella gerarchia dei sentimenti”, dice lui, “è il sentimento supremo”. Che storia è, quella del venticinque aprile, se non un storia di sentimenti supremi?
J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi Edizioni, Milano, 2005, p. 19.
G. Barraclough, Atlante della storia. 1945-1975, Laterza, Roma-Bari, 1977, p. 56
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 466.
R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Einaudi, Torino, 1965, p. 73.
Per il contesto nel quale è scaturito l’omicidio di Arnaldo Vischi vedere M. Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia, 1943-1946), Marsilio Editori, Venezia, 1998.
P. Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura e politica dal dopoguerra ad oggi, Viella, Roma, 2015, p. 38
R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, pp. 210-211.
C. Pavone, Una guerra civile, p. 243.