Iniziamo con il dire che sono un pezzo di merda. Non mi riferisco ai ventotto anni che mi hanno visto in questo mondo, anche perché sennò ci facciamo notte: non ho mai voglia di separare il tappo di plastica dal cartone del latte quando devo fare la differenziata, ad esempio. Restringendo il campo all’argomento del quale sto scrivendo e alle cose che scriverò sotto queste righe, sono un pezzo di merda per due motivi: primo, questa intera riflessione - questa intera lezione di nuoto - trova le sue fondamenta in maniera esclusiva in un fastidioso impianto retorico tipico del 25 aprile: questa giornata non come una ricorrenza, ma come un impegno quotidiano. VENTICINQUE APRILE TUTTI I GIORNI come si dice tante volte.
Quindi quale soluzione migliore di tacere il 25 aprile, e invece parlare il 27? È importante che ci sia qualcuno che dica che i nazisti e i fascisti erano e sono dei merdosi e che dovremmo ringraziare quei ragazzi e quelle ragazze che hanno risposto “al terrore nazifascista con il terrore patriottico”, per riprendere le riflessioni dell’anno scorso (quando ero un banale stupidino e pubblicavo il 25 aprile), anche due o tre o quattro giorni dopo la festa di Liberazione. Il ragionamento ha senso pur nella sua presunzione e boriosità, ed è anche importante per lo stato di salute della democrazia.
Peccato che la mia sia una truffa: in questa fine di Aprile ho lavorato come un bastardo, e quando non ho lavorato come un bastardo ho coccolato il gatto di Mattia e Gemma, ascoltato una quantità ridicola di volte Summer is ending dei Kino e guardato per la prima volta in vita mia un episodio di Love is blind (miglior cosa sia capitata all’umanità dopo l’acqua potabile, se non siete d’accordo avete torto). Insomma, non ho avuto tempo o testa di scrivere, ho mancato brutalmente la scadenza del 25 aprile che mi ero dato e ho buttato giù questa roba del “due giorni dopo il 25 aprile” per uscire da questa situazione con il culo pulito. Non è stata la prima volta che vi dico una bugia e non sarà l’ultima.
Questo è il motivo numero uno per il quale sono un pezzo di merda. Il secondo è che in ventotto anni non avevo mai visto Ways of seeing di John Berger, una serie in 4 episodi andata in onda per la BBC1 nel 1972 che rappresenta - con le parole di Valentina Tanni per Artribune2 - “un punto di partenza ineludibile per chiunque voglia avvicinarsi alla teoria dell’arte e per chiunque aspiri a comprendere a fondo la complessità dell’universo delle immagini”. Il critico d’arte britannico si concentra sui diversi modi di guardare le opere d’arte, sulle evoluzioni e le contaminazioni che subisce lo sguardo: Berger affronta “dalla mutazione del nostro rapporto con le opere d’arte in conseguenza dell’avvento della riproduzione fotografica, al loro uso come veicoli di messaggi politici e ideologici, nel presente come nel passato”. La scorsa sera l’ho visto grazie alle pressioni della mia ragazza, che mi ripeteva da praticamente un anno di guardarlo. L’ho visto e le ho dato ragione, e dopo averlo finito sull’onda dell’entusiasmo ho deciso di dare un’opportunità ad un altro suo grande cavallo di battaglia che avevo sempre stupidamente allontanato: Love is blind, ma di questo abbiamo già parlato.
Sarà che l’ho visto poche ore prima del venticinquesimo giorno d’aprile, ma soprattutto durante la puntata introduttiva - la prima - mi sono divertito a pensare venticinque aprile ogni volta che Berger diceva opera d’arte. È da un po’ che mi appesantisce - e credo vi appesantisca - il pensiero che questa giornata sia un pezzo da museo, che i nostri nonni partigiani, il sangue dei partigiani, la Costituzione nata sulle montagne, la Resistenza antifascista degli italiani e delle italiane non muovano un granello di sabbia nella contemporaneità. È da un po’ che mi appesantisce - e credo vi appesantisca - il pensiero che Giorgia Meloni eviti di dire antifascismo per rispetto dei fascisti, non per paura degli antifascisti. È da un po’ che mi appesantisce - e credo vi appesantisca - il pensiero che il venticinque aprile non faccia più paura a nessuno, al massimo sia un fastidio. Che celebrazione di un’insurrezione armata è, una celebrazione che non fa paura a nessuno?
E cosa rimane del venticinque aprile, quando questo non fa più paura? Nella peggiore delle ipotesi un circo. Sembra assurdo se lo diciamo a voce alta, ma è così: il venticinque aprile non è una roba nella quale a Genova un operaio comunista - Remo Scappini - ha preso dalle candide manine del Generale Gunther Meinhold l’atto di resa totale e incondizionata e l’ha controfirmato, sembra piuttosto una roba nella quale il nodo centrale è un corpo d’armata del British Army di cinquemila uomini che è arrivato in linea nel marzo 1945 e ha combattuto per meno tempo di un mio streak su Duolinguo. Mi sembra dunque ovvio che, se proviamo a riportare le cose in prospettiva, a sfilare non sono le bandiere della Brigata Ebraica - che deve essere omaggiata tanto quanto tutte le altre brigate britanniche che hanno combattuto contro i nazifascisti in Italia - ma quelle della Brigata Parenzo, una roba che con la festa d’Aprile ha poco a che fare. Questa mancanza di prospettiva è sintomo della Resistenza come una roba talmente lontana da noi che non sappiamo più leggere, nella quale non esistono più proporzioni. Questo era il worst case scenario. Il best? Delle belle foto e niente più, con la stessa funzione sociale di un Botticelli rinchiuso dentro la National Gallery di Londra.
Ho detto Botticelli perché la prima scena che vediamo in Ways of seeing è proprio Berger che taglia un(a copia di) Botticelli, Venere e Marte, visitabile alla National Gallery. È la maniera di vedere i dipinti più che i dipinti in sé, dice Berger. Si fa accompagnare da L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin e parla della riproducibilità dei quadri, degli enormi problemi portati dalla rimozione delle opere dal loro contesto originale e di come questo cambi sia cosa vediamo ma soprattutto come vediamo. Le opere d’arte diventano feticci, oggetti di consumo, merci come tante altre in quella “immensa raccolta” che diceva Carlo Marx. E che differenza c’è tra un Botticelli e Bella ciao?
La decontestualizzazione dell’esperienza resistenziale è prima di tutto sul livello dei valori, un valore che è maleducazione dire ad alta voce ma con il quale la storia ci impone di fare i conti: quando vedi un fascista, spara. Se dopo che hai sparato respira ancora, spara di nuovo. Mi scuseranno le signore che sono sobbalzate a queste parole ed hanno rovesciato un po’ del loro tè sul pavimento, ma questi sono i fatti. Non voglio assumere l’odiosa posizione di chi la butta sull’antifascismo poser: non è una posa, è un consumo. Che sia un’instagrammata, un tentativo di lavarsi la coscienza, un cantare belle canzoni tutti insieme abbracciati, ricordare i bei momenti passati con nonno, tutto questo va bene, basta che la Resistenza sia oggi innocua. Ovvero, che sia inutile.
Un venticinque aprile senza fascisti e senza fucili è un venticinque aprile manipolabile, anche questo dice Berger riguardo le opere d’arte che analizza. Rimanendo su Venere e Marte, basta uno zoom della telecamera per trasformare un’immagine allegorica in un volto di ragazza. Ma non solo il movimento della telecamera: una musica di accompagnamento può cambiare tutto, o il muro sul quale è esposto il quadro, o le luci che lo illuminano, o le cose che si trovano sopra o sotto. Niente di tutto ciò suona nuovo: abbiamo visto il venticinque aprile con le bandiere europee al posto di quelle rosse, con quelle di Israele, della NATO, con le immagini del battaglione Azov. Lo abbiamo sentito chiamare “festa della libertà”, al posto della Liberazione. Vale tutto, perché tanto non vale niente.
Però, se devo essere completamente onesto, questa roba dovrebbe farci fare un sospiro di sollievo. È un bene che non ce ne freghi più niente - a me e a quelli che si riconoscono in quello che dico - di fascismo e antifascismo, è una salvezza che siamo riusciti a slegare questo feticcio della democrazia dalle bande di 18enni che hanno rinunciato agli abbracci delle loro mamme e alle carezze delle loro fidanzate o dei loro fidanzati per far saltare le teste di qualche camicia nera. Teste che hanno riempito le loro mani di sangue, aggiungendo il dramma del dare la morte a quello di riceverla. È un bene che le parole di Ernesto Balducci, prete scolopio e compagno di scuola dei minatori poi fucilati a Niccioleta, vicino Grosseto, nel giugno 1944 da un reparto di polizia formato da soldati italiani e ufficiali tedeschi, non parlino di noi. Non parlino a noi. Parole che fanno così:
“Quando le 23 bare, qualche anno dopo, vennero portate al nostro paese, un urlo si levò dalla folla. Io ero stretto fra la gente. Non ero uno spettatore. Ero un traditore. Me ne ero andato per una strada dove uno passa per rivoluzionario solo perché scrive un articolo coraggioso che potrebbe perfino impedirgli la carriera. Quando più alto si fa in me il fastidio morale per questo mondo, mi capita di tornare a quegli anni lontani, in quella piccola scuola invasa dalla tramontana, dove l’ideologia della prepotenza cercava di corromperci. Non c’è riuscita. Ma mentre Eraldo, Mauro, Luigi e gli altri hanno pagato con la vita la fedeltà al vero, io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo? Celebriamo la Resistenza, che fu un immenso, glorioso sogno di pace, e nel frattempo lasciamo che i “nazisti dell’anno duemila” vadano disseminando gli ordigni della morte. Questo sì che è un tradimento”.3
Che fortuna che abbiamo, si diceva. Che lusso fregarsene del fatto che il bando per la fucilazione dei giovani renitenti alla leva che giustificò la strage di Niccioleta fosse firmato da Giorgio Almirante, il padre politico di Giorgia Meloni. Altrimenti sarebbe un problema guardarsi allo specchio. Mi viene in mente quello che dice Louis C.K. in un pezzo che parla di quelli che si mettono fuori dalle cliniche per abortire e, in segno di protesta, urlano le peggiori bestialità alle donne che entrano: “la gente odia quelli che protestano contro l’aborto, dicono che sono terribili e scalmanati. Ma cosa dovrebbero fare? Pensano che lì dentro stanno uccidendo dei bambini!! Dovrebbero dire semplicemente che non sono d’accordo? Che non è cool uccidere dei bambini?”.
È questa la mia paura, che se faccio una gara di “fedeltà al vero” con un anti-abortista che va fuori dalle cliniche a urlare bestialità alle donne che entrano, vince lui. È la paura di svegliarmi ogni mattina, vedere gli “ordigni della morte” disseminati dai nuovi nazisti e pensare che sì, magari qualcosa faccio. E poi non faccio niente, oltre a scrivervi parole che cercherò di dimenticarmi il prima possibile.
Grazie per aver letto fino a qui, spero di aver fatto un buon uso della tua attenzione e del tuo tempo. Puoi trovare altre riflessioni sul venticinque aprile nei pezzi pubblicati gli scorsi anni, nei quali provo a riflettere sulla Resistenza partendo da angolazioni diverse e nuove: ma tu lo sposeresti un uomo che ne ha ucciso un altro?, una mano così umana, una storia di sentimenti supremi e ti rullo di kartoni. Se non sei ancora iscritto o iscritta alla newsletter puoi farlo da qui, se invece vuoi dirmi qualcosa puoi rispondere a questa email o scrivermi su Instagram. Lezione di nuoto era, è, e rimarrà gratuita. Se però hai voglia di pagare la birra che ci prendiamo insieme ogni mese e supportare economicamente questo progetto, da oggi puoi farlo. Altrimenti è comunque ok, nessun problema. Anche perché, come dice una delle più grandi penne del nostro tempo: “saremo ricchi, ricchi per sempre / o forse no, vabbè fa niente”.
Il lavoro di Berger originariamente è stato pensato come una serie di puntate per la TV. Se preferite però leggere, esiste anche una versione cartacea: J. Berger, Modi di vedere, Bollati Boringhieri, Torino, 2015.
V. Tanni, John Berger e il linguaggio delle immagini. Lo storico programma tv della BBC, artribune.com, 3 gennaio 2017.
L. Niccolai, Il «sangue dimenticato» di una strage operaia. Storia e memoria dell’eccidio di Niccioleta (13-14 giugno 1944), in Zapruder, storie in movimento, 4, maggio-agosto 2004.