ti rullo di kartoni.
i garibaldini fanno la guerra da soldati della libertà, ma sanno essere inesorabili e giustizieri.
Un paio di settimane fa sono andato in una decina di quinte elementari per parlare di chi erano i partigiani, che detto così sembra il preambolo alla notizia del mese: ho vinto un divieto di avvicinamento alle scuole pubbliche e parchi frequentati da bambini. No, non è vero. Pur non sapendo cosa farmene posso ancora avvicinarmi a scuole e parchi, considerando che in quelle quinte elementari ero stato invitato dal Comune del territorio. È stata una bella esperienza, una chiacchierata preparatoria ad uno dei primi venticinque aprile che quelle creaturine vivranno più o meno coscientemente. La maggior parte dei bambini e delle bambine era genuinamente interessata. Aveva già sentito dire i nomi di Hitler e Mussolini, qualcuno sapeva anche dello sbarco in Normandia. In due mi hanno chiesto se era vero che Mussolini prima di diventare cattivo era buono, una maestra ha chiesto a voce alta se era vero che Hitler si fosse suicidato oppure… oppure forza, ci siamo capiti. Ero imbarazzato e volevo tornare a parlare con i bambini. Uno mi ha chiesto, totalmente a caso, di spiegare cosa fosse e come funzionasse un moschetto. Sistematicamente l’ultima domanda era: che squadra tifi?
Poi dopo Hitler, Mussolini, la Normandia e il moschetto, ma prima di “l’Unione Sportiva Livorno Calcio. Io tifo l’Unione Sportiva Livorno Calcio” e dei conseguenti rumoreggiamenti (le scuole erano nella narniesca provincia di Pisa), dovevo parlare dei partigiani. I partigiani erano ragazzi e ragazze poco più grandi di voi, iniziavo a dire. Erano ragazzi e ragazze poco più grandi di voi che erano antifascisti. Prendendomi gioco di un’infelice citazione sul terrorismo islamista dicevo poi che tutti i partigiani erano antifascisti, ma non tutti gli antifascisti erano partigiani. Si poteva essere antifascisti in tanti modi diversi e tutti importantissimi: scrivere una poesia o uno slogan sul muro, bucare le gomme di un camion o dare indicazioni sbagliate a dei soldati. Per i partigiani questo però non era abbastanza. I partigiani pensavano che se qualcuno davanti a te ti minaccia con un fucile, scrivere una poesia non basta. Certe volte devi prendere un fucile anche tu. I partigiani, bambini, erano dei violenti.
Le maestre mi guardavano con uno sguardo di pietra, i bambini erano tra il confuso e l’elettrizzato. Io poi dicevo che lo so che oggi siamo abituati a reputare la violenza sempre sbagliata, ed è giusto pensarlo. Noi però viviamo in una cosa bellissima che si chiama pace, mentre qui stiamo parlando di una guerra, e in guerra le cose funzionano diversamente. I partigiani erano i violenti tra gli antifascisti, coloro che avevano deciso di sparare contro chi sparava loro contro. La violenza in tempo di pace è sempre ugualmente sbagliata, proprio come vi dicono i vostri genitori e le vostre maestre, ma la violenza in tempo di guerra non è uguale tra sé e non è neanche sbagliata. Da una parte si sparava per far continuare l’oppressione e la violenza, dall’altra si sparava affinché tutto questo finisse. Usando un’espressione che ho letto in un diario partigiano che ora non trovo più, “si sparava affinché non si dovesse sparare più”. E poi da una parte si sparava contro gli innocenti, dall’altra contro i colpevoli. È una bella differenza, bambini. I partigiani non sparavano alle persone comuni, come facevano i nazisti ed i fascisti. I partigiani non sparavano alle bande di musicisti in pensione, pensavo nella mia testa.
Lo pensavo perché nel cervello mi giravano e rigiravano le parole del Presidente del Senato Ignazio La Russa. Era in un podcast di un giornale di destra, Libero mi pare, e parlavano - lui e i due conduttori del podcast - delle parole di Giorgia Meloni sulle Fosse Ardeatine: i tedeschi avevano ucciso quella gente perché italiana. Vabbè, non è proprio così, ammette La Russa, ma ci sta come approssimazione. E poi sottolinea il fatto che quella delle Fosse Ardeatine sia stata una rappresaglia, che qualcosa era successo prima. Prima era successo che i partigiani avevano attaccato dei tedeschi in una via di Roma che si chiamava e si chiama via Rasella, ma questi tedeschi non erano “biechi nazisti delle SS”, bensì una “una banda musicale di semipensionati”, mezzi italiani in quanto altoatesini. Non una delle pagine più nobili della Resistenza italiana, convengono ridacchiando scemo 1, scemo 2 e scemo 3. E poi i partigiani lo sapevano a cosa andavano incontro, che ci sarebbe stata una terribile rappresaglia. Chiaro che lo sapevano.
Chiaro che non lo sapevano. Chiaro che non erano una banda musicale. Chiaro che non erano dei semipensionati. Io onestamente non sono qui per fare debunking su La Russa, se vi interessa via Rasella e le dinamiche della rappresaglia successiva vi consiglio il meraviglioso L’ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli1. Quando ho sentito le parole di La Russa a me non è venuta voglia di debunking, di fare sapere a più persone possibile che il Presidente del Senato stava mentendo e che questa cosa era gravissima. Non ho provato neanche indignazione, o offesa. Me lo aspetto da La Russa, è esattamente quello il suo ruolo nel mondo ed è molto bravo a farlo. Io ho sentito fortissimo nelle orecchie il giro di armonica in Lettera dal compagno Laszlo al Comandante Valerio di Giorgio Canali, e poi ho sentito il bisogno di parlare di violenza. Di violenza partigiana.
In realtà ne ho già parlato tante volte di violenza partigiana in questo spazio. In pezzi come ma tu lo sposeresti un uomo che ne ha ucciso un altro?, una mano così umana o storia di sentimenti supremi, ad esempio, ho provato a restituire quello che è uno degli aspetti che più mi colpiscono di una guerra partigiana: la violenza non solo ricevuta, ma anche data. Data da persone che non si sarebbero mai aspettate di darla, da persone che hanno passato la loro intera vita a rifiutarla. Ho provato a parlare di guerra partigiana senza partigianeria, piangendo lacrime letterarie anche per la tragedia personale di chi aveva una camicia nera. L’ho fatto e continuerò a farlo in futuro per due motivi: uno, perché il dramma umano del dare violenza è un argomento che mi ossessiona a livello di interesse personale; secondo, perché lo ritengo un nodo importante per glorificare l’esperienza partigiana come merita e per comprendere questa cosa sulla quale in teoria si basa la nostra cretina Repubblica. Comprendere cosa sia stata la violenza in Italia dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è capire per cosa combatteva qualcuno e per cosa combatteva qualcun altro. È comprendere qualcosa di importante.
Vi devo chiedere scusa se ho fatto questo, perché non sono stato corretto. Non solo verso di voi, ma anche verso chi ha sparato. Ho fatto una scelta di comodo, una scelta che faceva passare me per un soft boi e i partigiani per delle creature mitologiche metà guerriglieri e metà bambino della pubblicità Motta preoccupato per Babbo Natale che si deve calare dal camino, quindi posiziona un panettone nel centro del braciere e lo invita a buttarsi, che è morbido. Dei teneroni, insomma. Dei teneroni con i fucili, ma pur sempre dei teneroni. Ho fatto una scelta che ci faceva andare in giro a testa alta e con un sorriso a 32 denti, mentre dicevamo che sì, anche i nostri hanno usato la violenza, ma era una violenza gentile. Una violenza da pubblicità Motta. Una non-proprio-violenza.
Questa è una stronzata, noi non dovremmo pensare questo. Non dovremmo pensare che aver sparato fino all’ultima cartuccia sia stato maleducato, che appendere Mussolini come un maiale e farlo riempire di sputi sia stato troppo, non dovremmo pensare alla nostra tempestosa violenza come una vergogna. Perché il rischio è che gli altri non ci prendano sul serio, che il più grande attentato all’esercito tedesco in un contesto urbano dell’intero secondo conflitto mondiale - quale è stata l’azione dei gappisti a via Rasella - venga ridicolizzato come un attentato ad una banda di musicisti. Noi dovremmo andare in giro a testa alta e con un sorriso a 32 denti dicendo che - tornando su Canali - “si fa con lo schioppo / l’unità nazionale”.
Via Rasella che non viene presa sul serio è una problema. Un problema storico e quindi politico. Un problema diverso dal dire che i partigiani sapevano della rappresaglia, che hanno coscientemente spinto degli innocenti verso una condanna a morte. Quello è un gioco infame che vuole mettere sul conto dei partigiani dei morti che peseranno per sempre sulla coscienza dei nazisti e dei fascisti, quest’altro invece è uno sminuire la grandiosità militare di quell’azione. Quei tre lo dicono col sorriso sulle labbra, che erano dei musicisti e non dei soldati. Lo dicono per dire che la guerra non faceva per i nostri, che al massimo ce la prendevamo contro degli stupidi con le trombette.
La guerra faceva per i nostri invece, ed i nostri erano bravissimi nel fare la guerra. La violenza è stata una componente fondamentale della Liberazione, e questo dobbiamo dirlo a tutti. Anche ai bambini. I nostri hanno fatto scorrere fiumi di sangue, ed è stata una benedizione per questo Paese. Non dobbiamo berlo questo sangue, ma almeno rivendicarlo. Almeno dire che l'abbiamo fatto, che abbiamo attaccato colonne di nazisti e non bande di musicisti. Che la nostra violenza era implacabile e colpiva nel segno.
Dovremmo riprendere un po’ di confidenza con il nostro voler rullare di kartoni, come avrebbero detto gli Skiantos, i fascisti. Dovremmo riprendere un po’ di confidenza con le parole ed i pensieri di quel tempo, che non erano solo parole di libertà e di uguaglianza. Erano anche parole violentissime. Soprattutto nel contesto della questione su come reagire alle rappresaglie, dove troviamo “numerose e autorevoli […] prese di posizione a favore delle controrappresaglie, naturalmente tutte a carico dei fascisti militanti e dei militari tedeschi”2. Come il gappista milanese Giovanni Pesce, che propone di “rispondere al terrore con il terrore”3 dopo che i fascisti uccidono a Torino Ateo Garemi, o come un manifesto clandestino del marzo 1944: “per ogni giovane patriota ucciso muoiono 10 fascisti”4.
Nella guerra che conducono i patrioti delle formazioni partigiane la rappresaglia del nemico sulla popolazione è quasi inevitabile. Sta a noi intervenire nel modo più acconcio nella difesa degli interessi degli abitanti minacciati dalle rappresaglie nazifasciste. Se i nazifascisti bruciano le case dei contadini noi dovremo bruciare le case dei capi fascisti, dei fascisti; se uccidono per rappresaglia dei pacifici abitanti dei paesi dovremo passare alle controrappresaglie sui fascisti, tedeschi e anche loro famiglie. Al terrore nazifascista bisogna contrapporre il terrore patriottico.5
Parole, in diversi casi solo parole. Parole perché è comunque difficile, perché “vendicarsi e far rappresaglie può occorrere a chi non ha niente avanti a sé; ai fascisti può occorrere, non a noi che abbiamo molto dinnanzi a noi. A noi occorre altro: lottare per questo molto”6. Ma anche fatti, in quanto la violenza della controrappresaglia è “la sola difesa intravista contro immancabili future esplosioni dell’ira impotente del crollante regime”7.
Nella sola Lombardia, nel solo 1944: 30 fucilazioni in risposta all’eccidio di piazzale Loreto dell’agosto 1944, 8 fucilazioni in risposta ad un eccidio nel Pavese, 45 nazisti e fascisti ammazzati a seguito dell’uccisione di 15 partigiani, 20 SS soppresse in risposta alla fucilazione di 5 patrioti, 35 fascisti fucilati per la morte di 7 partigiani. Dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, comandante delle formazione di Giustizia e Libertà piemontesi, si diede l’ordine di “passare per le armi 50 banditi delle brigate nere”. Non avremo mai un elenco completo, nota Claudio Pavone8 - colui che meglio ha trattato l’argomento -, ma soprattutto non avremo mai una risposta alla domanda più importante: quante stragi di civili si sono evitate, grazie al terrore di una controrappresaglia?
Questo siamo stati, questo celebriamo oggi. Celebriamo i nostri ideali di libertà e uguaglianza tanto quanto i mezzi che abbiamo scelto per essere liberi ed uguali: una violenza che non poteva permettersi il lusso della pietà. Senza vergogna, senza rimpianti, senza nascondere neanche un proiettile che è uscito dai nostri fucili. Che se smettiamo di ricordarlo a tutti diventiamo una cosa che fa ridere, diventiamo quelli che la guerra la facevano un po’ così, come veniva. Che sparavano alle bande di musicisti semipensionati.
A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Feltrinelli, Milano, 2012.
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.
G. Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano, 2013.
C. Pavone, Una guerra civile, op. cit.
Documento su come gestire le rappresaglie scritto da “i compagni responsabili” al commissario politico di una formazione garibaldine operante nel Cuneese; C. Pavone, Una guerra civile, op. cit.
Elio Vittorini sulle pagine del L’Unità in seguito all’uccisione del compagno Eugenio Curiel, fucilato dai fascisti a Milano il 24 febbraio 1945; C. Pavone, Una guerra civile, op. cit.
Documento del Comitato di Liberazione Nazionali Alta Italia; C. Pavone, Una guerra civile, op. cit.
C. Pavone, Una guerra civile, op. cit.; tutti i dati forniti provengono da qui.