Io credo nelle linee che vanno dal punto A fino al punto B. Ci credo, e ne sento il bisogno, ideologicamente e caratterialmente. Ci credo, e ne sento il bisogno, perché un linea che parta da A e non è detto che arrivi a B è una potenziale fonte d’ansia, e l’ansia mi leva il fiato a me. Purtroppo però, studiando la Storia, mi sono accorto che è niente più di un meccanismo di difesa mio, una roba storicamente inesistente, oltre che un’ambizione umana ridicola. Non esistono linee, nella Storia. Spesso non esiste neanche un punto A ed un punto B, sono robe che decidono altre persone - più o meno arbitrariamente - anni o secoli dopo. Esiste l’uomo ed esiste la donna, piuttosto, che non sono linee. Che deviano, tornano indietro, si interrompono, rimangono fermi, vanno oltre. Che vivono d’istanti all’interno di un percorso, che rendono assurda la stessa idea di percorso vivendo l’istante. Questo progetto accompagna una newsletter ad uno spazio di archiviazione d’istantanee, sempre all’interno di un percorso, proprio per questo. Perché solo la distruzione del percorso attraverso l’istante ci chiarisce l’idea di Storia.
Io non voglio spiegarvi niente, ma non per un rigurgito socratico, perché so di non sapere. So di non sapere, chiaro, ma di qualcosina(ina, ina, ina) potrei parlarvi senza risultare un completo imbecille. Non voglio perché semplicemente non ne vedo l’utilità, non vedo il fine di spiegarvi Hitler, l’invasione della Polonia, quei matti dei sudeti, la conferenza di Monaco e queste robe qua. Credo sia più interessante parlarvi di istanti e ridere insieme della pretesa di coerenza tipica di un percorso, anche se questo percorso non fa ridere proprio per niente. Credo sia più utile vedere la negazione di quel percorso per tutta una serie di questioni con le quali mi riempio il cervello da qualche tempo: perché mi piace da matti l’inadeguatezza del singolo rispetto al fiume in piena che chiamiamo Storia (e che in realtà è solo UNA Storia; quella dei grandi generali che fanno grandi piani per vincere grandi guerre, per capirsi), perché ci aiuta a scorgere l’essere umano (verbo+aggettivo) in ogni ambito, anche quello più terribile (perché sì, la Storia è principalmente gente che viene ammazzata e mezzi di produzione tolti alla classe lavoratrice), perché trovo molto stimolante la dimensione alternativa (non solo antagonista, anche semplicemente speculare) allo stato delle cose.
La miglior dinamica nella quale poter inserire queste riflessioni, per me, è la dinamica che sembra meno adatta: il male più assoluto ed organizzato che l’umanità abbia conosciuto. Al nazismo1 si deve riconoscere una dimensione istantanea - e che nega il suo percorso - prima di tutto per tenerlo ancorato alla sua essenza umana, in secondo luogo per non sterilizzare proprio quel percorso con il quale decidiamo di “giocare” un po’. Ne avevo già parlato brevemente qua, ma credo sia importante riprendere il discorso: quando parliamo di nazi, vi prego, parliamo di uomini. Parliamo di persone in grado di voler bene, perfino di amare. Parliamo di persone simpatiche, antipatiche, generose, avare. Parliamo di persone che facevano sbudellare dalle risate, o gente che se la incontravi per strada facevi finta di non vedere. Come scrive Christopher Browning nel meraviglioso Uomini comuni, nel quale ricostruisce la storia del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca responsabile, oltre che del massacro di Józefów (piccolo villaggio polacco vicino Varsavia; 1500 ebrei uccisi dall’alba al tramonto), dell’uccisione di quasi 40mila ebrei e la deportazione di altri 45mila in un solo anno, “in ultima analisi, l’Olocausto fu possibile perché singoli esseri umani uccisero altri esseri umani in gran numero e per un lungo periodo di tempo”2.
La dimensione istantanea e paradossale (nella sua apparente negazione del Male) del nazismo non è solo estremamente interessante, è anche estremamente necessaria. Conoscere quei singoli esseri umani è importante per conoscere cosa sia stata quella terribile esperienza storica, per rendersi conto che - purtroppo - l’essere un assassino ed un criminale di guerra non assolutizza una persona; capire questo serve per riconoscerli la prossima volta che ci si presenteranno alla porta, chiaramente. Se staremo alla finestra ad aspettarci un assassino di ebrei ci lasceremo prendere alla sprovvista, perché apparentemente non vediamo assassini di ebrei quando vediamo scene come questa:
Qui entra in gioco il miracolo e l’inganno delle fotografia ed il suo folle rapporto con la Storia (ovvero il motivo per il quale ho deciso di integrare un archivio a questo progetto), che non è altro che il miracolo e l’inganno dell’istante sul percorso. L’istante che disintegra il percorso, infatti, è qui. Il percorso che assume il suo senso più alto nel momento della sua distruzione, è qui. Premessa: ci sono due SS. Parte 1: il gioco scemo di due ragazzi, le espressioni, gli sguardi, il paradosso che sia un uomo (degli anni ‘20) a impersonificare una mamma, il paradosso che sia un uomo (adulto) a impersonificare un bambino. Percorso distrutto e posso sorridere. Parte 2: il peso di quelle divise, l’infamia dell’Ehrenwinkel der Alten Kämpfer (questo simbolo sull’uniforme), la possibile collocazione sul fronte orientale (scenario delle peggiori efferatezze), la situazione poco chiara intorno a loro, l’atroce dubbio sulla sorte toccata alla vera mamma ed al vero bambino. Percorso ricostruito tramite la distruzione, non sorrido più. Certo, se non avessi saputo contestualizzare questa foto sarebbe stata una pericolosissima prova che forse, sotto sotto, i nazisti non erano tutti mostri. Se si è in grado di integrare l’istante ed il percorso, di far rivivere il secondo tramite al primo, però, è la prova schiacciante che la Storia non è fatta di mostri, ma di uomini che si comportano come mostri.
Una scenetta alla quale avremmo riso anche noi, una situazione nella quale ci riconosciamo, un’abitudine che abbiamo anche noi, un’espressione sul viso che ci ricorda quella del nostro amico, ci avvicinano al peggio che l’umanità abbia tirato fuori. Questa vicinanza non ci rende ovviamente complici del dolore e della distruzione che questi uomini hanno portato sulla terra - la responsabilità è sempre individuale, non scherziamo; sarebbe uno schiaffo alla memoria di chi ha avuto il coraggio di dire no -, e non assolve in alcuna maniera, ad alcun livello, quegli uomini, ma rende quella mano che ha dato dolore e distruzione una mano simile alla nostra. Non una mano aliena, una mano umana. Questo è il primo passo, al quale devono necessariamente seguire una valanga di riflessioni su tutti i campi: sociologiche, antropologiche, filosofiche, psicologiche e ovviamente storiche. L’umanizzazione non è una spiegazione del nazismo. Non spiega nulla, e chi umanizza il più grande crimine della storia dell’umanità con il solo fine di umanizzare è probabilmente lui stesso un nazista. Umanizzare apre semplicemente un rubinetto dal quale sgorgano domande su domande, nessuna risposta, nessuna spiegazione. Una di queste domande è forse la più angosciante, una delle più importanti che a mio avviso ogni persona interessata a comprendere e denunciare l’esperienza nazista deve farsi: quanto, quella mano così umana, assomiglia alla mia?
Ci sono molte società afflitte da tradizioni di razzismo e ossessionate dalla mentalità o dalla minaccia di guerra; ovunque la società spinge gli individui a rispettare e a ossequiare l’autorità, ed è difficile che funzioni altrimenti; ovunque le persone aspirano a un avanzamento di carriera. In ogni società moderna, la complessità della vita, con la burocratizzazione e la specializzazione che ne conseguono, attenuano il senso di responsabilità personale di coloro che realizzano le direttive ufficiali. All’interno di ogni collettività sociale, il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali. Se in circostanze analoghe gli uomini del 101 divennero assassini, quale gruppo umano può reputarsi immune da un tale rischio?3
The end. Spero vi sia piaciuto, per me questa è LA questione per comprendere umanamente (e non solo da storici) l’esperienza dei totalitarismi e della distruzione che l’uomo porta sulla terra; una volta capita umanamente, come dicevo, dobbiamo capirla sotto tanti altri aspetti. Al solito: se volete dirmi qualcosa rispondete a questa mail o sentiamoci su Instagram. Buon weekend (e leggete Browning!).
L’esperienza nazista non è l’unica alla quale si possa fare riferimento, solo la più semplice. Mi viene in mente la testimonianza del soldato statunitense Michael Rosenfield, arruolatosi nel 1970 (in piena guerra del Vietnam): “Ti mettevano in mano un fucile con una baionetta e dicevano «Qual è lo spirito della baionetta?». E tu dovevi urlare: «Uccidere!». E, non lo dimenticherò mai, io rispondevo a gesti. Non volevo dirlo. Così, per farcelo dire più forte, il sergente urlava: «Non ti sento!». Tutti urlavano: «Uccidere!». E, di nuovo, io facevo la pantomima. Una volta dissero: «Se non lo dite più forte, non vi daremo la gassosa!». E, non lo dimenticherò mai, a un certo punto urlai che lo scopo della baionetta era uccidere - la prima volta che lo feci - ed ebbi la gassosa, perché ero esausto e disidratato."; in J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma, 2003, p. 82.
C. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino, 2004, p. XIII.
C. Browning, Uomini comuni, op. cit., p. 198.