non è per questo che finirà il mondo.
le domande che mi terrorizzano, l'amore, la morte ed i boa piumati.
Ci sono delle righe di Jonathan Littell in Le Benevole che è difficile non ti tormentino, che non ti facciano tremare la terra sotto i piedi. Littell quelle righe le scrive ma chiaramente non le dice, perchè Littell al tempo è un trentenne newyorkese, figlio dello scrittore Robert Littell, che ha studiato a Yale e che ha scontato il suo senso di colpa per aver vinto la lotteria della concentrazione delle ricchezze nella società capitalista facendo azione umanitaria nella Bosnia dei primi anni ‘90, quella chiazza di terra in mezzo a robe non-newyorchesi divorata da una guerra tra le più terribili mai viste. Littell le mette in bocca a Maximilien Aue, un ufficiale delle SS criminale di guerra ora sotto falso nome in Francia, tramite la finzione narrativa tipica del romanzo; perchè Littell, oltre a quello che abbiamo appena detto, è una persona estremamente intelligente. E lo sa che uno studente di Yale newyorchese ha tante cose interessanti da dire, una miriade probabilmente; ma non fa tremare il mondo di nessuno.
E chi è che ti fa tremare la terra sotto i piedi? La negazione del tuo mondo ti fa tremare la terra sotto i piedi, caro mio. La precarietà di tutto quello che hai costruito ti fa tremare la terra sotto i piedi, cara mia. La consapevolezza che spesso è un tiro di dadi, gli occhi di chi ha smesso di trovarci un senso e tante altre cose. Un malato di cancro, un padre che sopravvive ad un figlio, una vittima di violenza. La storia di un tradimento, di un fallimento. Se si prova a fare uno sforzo di prospettiva storica in questo senso, se si prova a cristallizzare tutti i pugni al plesso solare rappresentati dai temi che abbiamo introdotto (e quindi la malattia, la morte innaturale, le violenze, i tradimenti, i fallimenti) in un determinato evento storico, ci rendiamo conto che l’esperienza nazista è la più precisa in questo senso. Con una prospettiva paradossale, però. Non quella della vittima; quella del carnefice.
Sulla prospettiva della vittima c’è poco da dire onestamente, per il semplice fatto che c’è da dire tutto. Ed il tutto non si fa esprimere. È una fortuna che ne abbiano scritto i sopravvissuti, che qualcuno abbia avuto il coraggio di trasformare l’inferno in letteratura; come avremmo fatto ad immaginarlo, anche con le foto, anche con i filmati? Sono necessari gli odori, le sensazioni, i pensieri, la solitudine, il freddo, per fare il primo passo verso il poter comprendere quello che è successo; lasciamo stare il concepire, davvero. Nel sociale - ben diverso dal personale, dagli odori, dalle sensazioni, dai pensieri, dalla solitudine e dal freddo -, però, “essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima”1. La vittima, anche nel caso di una tristissima compromissione totale del personale, è comunque sociale; Giglioli addirittura la definisce “l’eroe del nostro tempo” in quanto la vittima “non agisce, patisce”. Per il carnefice questo non c’è; c’è l’accusa, poi la condanna, poi la rimozione. È questa, forse, la differenza tra la terra che trema pensando alla vittime rispetto a quella che trema pensando al carnefice: nel primo caso la terra trema nell’atto della comprensione, nel secondo trema nel timore di questa.
Il motivo per il quale l’immaginarsi le persone che siamo, ma con una divisa delle SS, ci fa tremare la terra sotto i piedi alla stessa maniera di una malattia, della morte, delle violenze, dei tradimenti e dei fallimenti forse è più semplice di quel che pensiamo: siamo un po’ violati, violati da chi prende le decisioni per noi, ed un po’ violatori; un po’ ammalati, ammalati di propaganda, e un po’ il virus. Questo ci rende un po’ morti. Morti fuori natura, un po’ tristi suicidi e un po’ fieri kamikaze; un po’ miserabili ingannati e mandati a morire, un po’ demoni sulla terra. Siamo morti davvero (sono più di 7 milioni i tedeschi mandati a morire per il Reich), e siamo morti come esseri umani. È la dimensione umana che spiega il tradimento ed il fallimento; abbiamo tradito e fallito rispetto a chi non è stato noi. Non c’è niente di semplice nel tradire l’umanità, e non c’è niente che vada preso con leggerezza. Ora finalmente possiamo leggere Littell ed ascoltare Aue:
Siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell’altro. Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato della storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l’eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo.2
Di queste robe chiaramente ne hanno scritto in tanti, più storici di Littell e (decisamente) più intelligenti di me. Di Christopher Browning ve ne ho parlato fino alla nausea, fino al meme di Bernie Sanders che chiede di nuovo di fare cose, ma capite che è importante mettersi in testa che coloro “che attuarono i massacri e le deportazioni erano esseri umani, esattamente come i pochi che rifiutarono o si sottrassero a tali compiti”3. Poi ci sono altri storici, come Daniel Goldhagen, che si scannò a suon di postfazioni con Browning (no, davvero, i dissing tra storici sono pazzeschi) perchè convinto che “i responsabili dell'Olocausto non furono solo le SS o i membri del partito nazista, ma i tedeschi di ogni estrazione sociale, uomini e donne comuni che brutalizzarono e assassinarono ebrei per convinzione ideologica e per libera scelta, senza subire pressioni psicologiche o sociali”4. Che si parli di anime come le nostre ma ingannate, plagiate, indotte alle barbarie, o semplicemente di demoni per libera scelta, certe volte a me viene da pensare: ma questa gente - questi nazisti - non lo sapeva come amare?
Prima che si passi da Browning e Goldhagen a Francesco Sole in 50 battute spazi inclusi, provo a spiegarmi meglio. Ultimamente mi è capitata una cosa meravigliosa: ho scoperto che le showgirls che formavano il coro (una composizione di angeli a forma piramidale) alle spalle dell’attrice svedese Zarah Leander in Die große Liebe (Il grande amore, 1942), film cult5 della propaganda cinematografica nazista, in realtà non erano showgirls. Non erano neanche attrici, a dire la verità, o cantanti. Va bene, non erano neanche donne. Erano gli uomini della Divisione delle SS d’elite, i migliori di tutta la Germania: si chiamavano Panzer-Grenadier Division Waffen-SS "Leibstandarte Adolf Hitler". Per quel coro servivano donne alte e statuarie, molto importante che fossero tutte della stessa altezza. Non vennero trovate, e si decise quindi di metterci gli assassini più assassini tra gli assassini6. Erano della stessa altezza, erano alti, erano statuari, erano i più tedeschi tra i tedeschi.
Il film Die große Liebe, che è una rottura di coglioni e che parla di una donna che prima attende, poi rifiuta e poi comprende il suo amato completamente devoto alla guerra del Reich, parla appunto d’amore. L’amore tra i due e l’amore per il Reich, quindi l’amore e la morte. Cosa vi viene in mente quando vi parlano d’amore? Le mani di una persona, o i suoi occhi? Un messaggio, o un momento? Catullo, o Tiziano Ferro? Non esistono risposte sbagliate, tranne la morte. È lì che in quel petto, il mio petto, gonfio di felicità per aver scoperto che delle merdosissime SS facevano le coriste-angeli con un boa piumato attorno al collo, si è aperto un vuoto. Quella non era la negazione di un superomismo portato fino al punto dell’elitismo omicida, era una trappola estremamente pericolosa. Era la sovrapposizione tra amore e morte.
Non è neanche questa la cosa che mi ha fatto scegliere di scrivere di questo con voi, nonostante ci si stia tremendamente avvicinando. Sono i titoli delle canzoni di questo film, di questo coro, di questi angeli, di questi demoni, di questo amore che diventa morte, ad avermi fatto scoppiare in testa una domanda che rimbomba ormai da settimane. Questa impiumata e canterina Divisione delle SS, la stessa che compì (una su tutte) la prima strage di ebrei in Italia, quella del Lago Maggiore, cantava Davon geht die Welt nicht unter, traducibile come “non è per questo che finirà il mondo”. E mi è mancato il respiro. Perchè mi sono accorto che non è tanto l’omicidio, singolo o di massa, o la superiorità razziale, o la discriminazione, che io non mi so spiegare dell’esperienza nazista. La domanda che terrorizza me non è se io avrei eseguito gli ordini o meno, se avrei sparato a donne e bambini o meno, se avrei accompagnato innocenti nelle camere a gas o meno. La domanda che terrorizza me è se davvero, con tutto il mio cuore, avrei pensato che il mondo non sarebbe finito per quello. Che si possa essere amore, e poi la morte.
Che bello sentirci di nuovo dopo la pausa natalizia! Spero vi sia piaciuto, soprattutto spero di aver avuto la chiarezza e la sensibilità senza le quali questi temi è meglio non affrontarli. Ad ogni modo questi erano i miei two cents per la Giornata della Memoria, seppure con una prospettiva particolare; se il tema vi appassioni vi ricordo che questa riflessione si può inserire all’interno di una trilogia (che non ha la minima intenzione di fermarsi a 3) con le prime due che sono ma tu lo sposeresti un uomo che ne ha ucciso un altro? e una mano così umana. Al solito, se mi volete dire qualcosa rispondete a questa mail o ci si vede su Instagram, altrimenti ci sentiamo il mese prossimo. Ciaooooo!
D. Giglioli, Critica della vittima, nottetempo, Milano, 2014, p. 9.
J. Littell, Le Benevole, Einaudi, Torino, p. 21.
C. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino, 2004.
D. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano, 2017.
R. Grunberger, The 12-Year Reich. A Social History of Nazi Germany 1933-1945, Ballantine Books, New York, 1972, p. 427.
J. Hooper, How the SS joined the chorus line, in theguardian.com, 1 giugno 2001.