Mio zio lavorava nella polizia e quando ero bimbo questa roba mi faceva impazzire. In un mondo dove non mi sforava la problematizzazione di forze con il compito di controllo e repressione delle classi svantaggiate, compito plasmato dal classismo e dal razzismo sistemico nello Stato borghese, il fatto che qualcuno avesse delle macchine con le sirene mi sembrava abbastanza per decidere da che parte stare. Il mondo non si divideva tra giusto e sbagliato, tra bianco e nero, ma tra chi aveva le sirene sulla macchina e chi no. Ed io avevo deciso di stare dalla parte delle macchine che fanno le luci blu e un casino fortissimo. La mia mamma mi ha raccontato che ogni volta che incontravo qualche poliziotto andavo da loro a chiedere se conoscevano il mio zio, e ogni volta che qualcuno faceva cose che non mi piacevano minacciavo di farlo arrestare, forte del mio grado di parentela con quello con le sirene sulla macchina.
Una volta, da piccolo e con la fissa per la polizia, mi feci male ad un dito. Ero in bicicletta sul lungomare della mia città che inseguivo un amico, o lui inseguiva me. Insomma, il succo della storia è che ad un certo punto presi velocità, andai nel panico ed entrai fortissimo in una fioriera. Mi spaccai un’unghia o qualcosa del genere, perdevo tanto sangue e piangevo tante lacrime. La mia mamma mi portò all’ospedale per aggiustare l’unghia (non credo sia necessario specificarlo ma non ho la minima idea di come funzioni il corpo umano e tantomeno ho padronanza della terminologia corretta da usare. Un’unghia si aggiusta?) ed il dottore mi mise dei punti mentre io - che stavo vivendo il momento peggiore della mia giovane vita - lo ricoprivo di insulti. Ne conoscevo meno di 10, ma quel giorno li utilizzai tutti. Poi ad un certo punto mi calmai e glielo promisi: “tanto ti faccio arrestare da mio zio, stronzo”.
Ah, ah
Check, checka
T'aresto, cì
Me te bevo
Te manno ar gabbio
Te faccio piagne
In The Questura
2-0-1-5
Ah, ah, ah, ah, ah
E va così
Come dicevo ero solito a queste minacce, ed il dottore che mi incollò (what) di nuovo l’unghia non era la sola vittima, è semplicemente quella più famosa quando è il turno delle storie su di me ai pranzi di famiglia. Ultimamente mi è venuto in mente un altro episodio, per esempio. Mi è venuto in mente perché pensavo in maniera ossessiva e nociva alla Germania Est concentrandomi su dettagli storicamente e politicamente irrilevanti, un brutto vizio che mi contraddistingue. Pensavo soprattutto alle parole di Reinhard Plassman, il direttore di una clinica specializzata in malattie psicosomatiche attiva negli anni ‘90 a Stadtlengsfeld, in Turingia, quel pezzo di terra dimenticato da Dio tra Francoforte e Lipsia.
Plassman è il protagonista di un articolo per Der Spiegel1 e ci parla di come il muro che crolla non abbia significato solo pianti di gioia e famiglie riunite ma anche ansia, insonnia e disturbi dell’alimentazione per tanti tedeschi e per tante tedesche. Plassman le chiama “ansie da sopravvivenza”, e poi dice: “nella Germania Est a tutti era garantito un salvagente. Era garantito ai deboli e ai forti, ai magri e ai grassi, ai giovani e ai vecchi. Ora quei salvagenti sono spariti, e molti sono contenti di poter nuotare liberalmente. Tanti altri, però, si sentono soli, abbandonati e sopraffatti senza quei salvagenti”. Ecco un’altra persona che avevo minacciati di far arrestare da mio zio: il tipo della piscina comunale che cercava di insegnarmi a nuotare.
L’articolo inizia con una scena suggestiva di un giovane nella sala d’aspetto della clinica, rannicchiato nervoso su di una sedia austera. Si rifiuta di dare il proprio nome al giornalista, così come si rifiuta di raccontare la sua storia. Ci priva della sua individualità, della sua faccia e delle sue radici. È uno dei tanti, uno che la Storia con la S maiuscola la subisce e non la fa. È uno dei tanti che alla Storia con la S maiuscola magari non ci ha neanche mai pensato. Prima di alzarsi da quella sedia per andare a raccontare al medico le sue “speranze e delusioni, problemi e irritazioni” dopo il crollo del muro e la scomparsa del suo Paese, dice al cronista di Der Spiegel che “se devi decidere tutto da solo e non ci sei abituato, può essere devastante”.
Questa dimensione del muro di Berlino mentre crolla è una dimensione nuova, che ti tocca e ti obbliga a pensarci e ripensarci. Parliamoci chiaro: è impossibile non pensare al muro, in generale. Ma è necessario pensarci in una dimensione diversa, e questo è un qualcosa che rincorro da sempre e che già qui ho affrontato diverse volte: il muro che crolla ma è un controllo di faccia in una partita di calcio, il muro che crolla ma è una storia scema, il muro che crolla ma io non ho capito cosa succede. Perché lo faccio? Perché facevo il tifo per gli altri e ora cerco di confondere le acque? No, ve lo assicuro. Non ho interessi politici in ciò, e comunque ho paura che le battaglie politiche del 2023 non girino più attorno al muro di Berlino. Ho interessi personali, piuttosto. Questo interesse personale è solo e soltanto quello di non annoiarmi e di non dire bugie.
Non mi piace la narrazione mainstream della caduta del muro di Berlino esattamente come non mi piace El Clàsico, il derby tra Barcellona e Real Madrid che avviene inspiegabilmente 7 volte l’anno e che priva della gioia di vivere tutti i bambini del mondo2. Pensare a El Clàsico mi fa pensare alla ridondanza del bello, all’imposizione della gioia, alla mediocrità e alla falsità di un racconto dove alla fine tutti vivranno felici e contenti. Al fatto che l’omogeneità delle ripercussioni sociali degli avvenimenti storici non è un qualcosa che dovremmo prendere sul serio. Reinhard Plassman dice che in tanti sviluppano una dipendenza dal fumo a causa delle fabbriche che chiudono e dello stress su cosa ne sarà del domani. Nelle foto del muro di Berlino che crolla nessuno fuma mai: le bocche servono per baciarsi, le mani per tendersele.
Parte della terapia di Plassman - e della sua equipe di 18 medici e 5 psicologi - è anche il fatto di smettere di fumare. Si fa tanta conversazione, si danza, si fanno esercizi di rilassamento, ci sono corsi di ceramica. Poi ci sono corsi su come comportarsi ai colloqui di lavoro nel mondo nuovo, su come funziona il sistema legale e quello pensionistico. La 40enne Rosemarie Knöbler durante le sedute di terapia parla un sacco di quanto si senta male con sé stessa facendo il suo nuovo lavoro. È lo stesso lavoro di sempre in realtà, Rosemarie si occupa di assicurazioni. Prima lo faceva per il sistema assicurativo statale ed ora in un’agenzia privata della nuova Germania. Però dice che non riesce più ad essere ok con la sua coscienza facendo questo lavoro. Dice che prima doveva fare quello che era nell’interesse del concittadino, ora deve fregare il cliente. Dice che ha la sensazione di tradire le persone che ripongono fiducia in lei. Dice anche che i suoi ex-concittadini ed ex-colleghi non si fanno problemi e stanno chiudendo un sacco di contratti. Rosemarie non riusciva a stare al passo con i ritmi del suo nuovo posto di lavoro, salta un incontro il capo e viene licenziata. Dice che è caduta in un buco dal quale non riesce più ad uscire.
Come Rosemarie ce ne sono tanti e tante. C’è chi non dorme la notte perché ha incubi sul non essere all’altezza delle aspettative aziendali, chi si vuole tingere di biondo per essere tedesco come i tedeschi della Bavaria, chi ha il marito che sta malissimo per non poter più portare il pane a casa ma si rifiuta di andare in clinica. Questo è un altro punto interessante: il 67% dei pazienti sono donne, gli uomini cercano di salvarsi da soli. Come il marito di Christa Kuka, 49 anni, che secondo la donna avrebbe bisogno della terapia tanto quanto lei. L’ultima volta che sono andati all’ufficio di collocamento hanno sentito l’impiegato sussurrare “ormai ci mandano solo spazzatura”.
L’uomo senza faccia e senza radici, Christa e suo marito, Rosemarie e tutti gli altri e le altre non sono grigi burocrati del Partito, e nemmeno agenti della Stasi che si guadagnavano da vivere facendo report sui vicini di casa. L’uomo senza faccia e senza radici, Christa e suo marito, Rosemarie e tutti gli altri e le altre probabilmente erano degli stronzi qualunque, dei poveri Cristi o dei poveri diavoli come siamo poveri cristi e poveri diavoli tutti e tutte noi. Poveri cristi e poveri diavoli in quella maniera un po’ così, d’una banalità schifosa dove anche la differenza tra Cristo ed il diavolo si sbiadisce nelle miserie umane. Gente che vive nelle pagine più deprimenti della storia, senza parate di Partito o muri buttati giù piangendo di gioia.
Come Lorenz Becker, 30 anni, un altro protagonista dell’articolo: era un oppositore del governo comunista e, dopo una breve incarcerazione, venne portato nell’Ovest. Ma le dinamiche di una società capitalista possono essere difficili da digerire, e Lorenz finì per sentirsi uno straniero nella sua terra promessa: “ad Ovest mi hanno detto di tornarmene ad Est, ad Est mi hanno detto di andarmene ad Ovest”. Quando la gente marcia o piange di gioia tu dove sei, Lorenz Becker? Quando prende a picconate un muro o vorrebbe sparare ai manifestanti, tu cosa fai? Quando la gente si sceglie la sua parte nei libri di storia tu chi sei, Lorenz Becker? E noi? Noi dove siamo? Noi chi siamo? Noi cosa facciamo?
Io ora vado a casa, che forse ho lasciato la finestra aperta e se è entrata un’ape come ieri sera mi ammazzo.
Selbstbewusstsein Auf Null, Der Spiegel 28/1994, 10.07.1994. Da qui sono riprese anche tutte le citazioni successive.
Sull’astio verso le “Grandi Partite, con i Grandi Giocatori, così che le Grandi Televisioni possano parlare dell'Avvenimento dell'Anno” consiglio una delle cose più belle e giuste che siano mai state scritte sull’internet, ovvero il Breve elogio della Coppa Anglo-Italiana (una lettera risentita) di El Señor Dionigi per Lacrime di Borghetti.