Ho imparato a diffidare delle cose semplici, che riesco ad inquadrare in pochi minuti. Se riesco a digerire un qualcosa senza farmi troppe domande i rischi sono due: che sia costruito proprio per me o che non sia interessante, due prospettive che mi rendono incredibilmente triste. Credo siano le reazioni allergiche che mi ha lasciato un’istruzione scolastica tanto verticale quanto noiosa, che ti apparecchiava svogliatamente dei fatti o delle formule sul tavolo ed era tutto quello c’era da sapere. Io, che ero una pessima persona come solo un maschio bianco eterosessuale piccolo-borghese nel mezzo di una tempesta ormonale sa essere, per tutti quegli anni riuscivo a pensare solo alle ragazze, ad un comunismo carnevalesco, all’Associazione Sportiva Livorno Calcio ed al tirare fuori le gambe il prima possibile da quella follia che era l’adolescenza. I fatti e le formule mi hanno sempre annoiato, come le persone che mi apparecchiavano le cose e avevano la presunzione di pensare che sarebbe stato abbastanza per attirare la mia (la nostra) attenzione più di Innocent Emeghara che approfitta del retro passaggio da imbecille di Fredy Guarin e firma il 2-2 tra Livorno e Inter.
La storia mi è sembrata interessante per la prima volta quando ho scoperto che potevo arrivare alle cose seguendo un’altra strada, l’unica che riusciva a mantenere viva un’attenzione massacrata dalla produzione di dopamina e dall’over stimolazione del mio cervello nativo digitale. E anche l’unica che mi lasciava con la sensazione di aver davvero fatto i conti con quello che stavo cercando di imparare. Si tratta di farsi prendere a schiaffi dalle cose, in pratica. Seguire un percorso che arriva alla chiarezza solo dopo la confusione. Comprendere (più che capire) passando dal mettere in discussione praticamente tutto quello che sai e sei; perdersi per essere sicuri di non dare niente per scontato, di non essere mai leggeri o deleganti nel processo di comprensione dell’uomo e la donna nella storia. Disorientarsi per essere sicuri di essere sulla strada giusta.
Sono riflessioni che tornano ciclicamente su questi spazi: il disorientamento che produce la scelta di togliere la vita altrui, la confusione di scoprire che un nazista amava la sua ragazza tanto quanto tu ami la tua (o il tuo), uno zambiano sulla luna, l’empatia, gli uomini della Panzer-Grenadier Division Waffen-SS "Leibstandarte Adolf Hitler" vestiti da angeli. Spero sia chiaro - l’ho già ripetuto diverse volte - che io non sono nella condizione di spiegarvi qualcosa ma solo in quella di coinvolgervi nelle cose che non capisco, nei dubbi che mi rimbalzano in testa. Ad ogni modo, volevo riprendere questa ciclicità anche per un tema che ho talmente a cuore da essere stato l’esordio di questo progetto, ovvero il tema della risata. In quella prima puntata si parlava di alcune azioni della Organizacja Małego Sabotażu „Wawer” (Organizzazione Piccoli Sabotaggi “Wawer”), una costola della resistenza polacca durante l’occupazione nazista che puntava sull’ironia per risollevare il morale dei varsaviani e abbattere quello delle truppe tedesche.
L’ironia che si prende gioco della Grande Storia mi ha sempre riempito il cuore della gioia più pura, proprio come tutte le dinamiche di dissacrazione. Si può desacralizzare la presunta superiorità razziale o l’effettiva superiorità militare dell’apparato omicida nazista, come fecero i polacchi. O si può desacralizzare la decomunistizzazione delle prefetture nell’Italia post-guerra civile, come quando Ettore Troilo, partigiano comunista della Brigata Maiella e Prefetto di Milano, venne fatto fuori dal Ministro dell’Interno Mario Scelba nel 1947 e l’avanguardia del proletariato italiano era pronta a far casino davvero:
Dopo la consueta dichiarazione di sciopero, l'agitatore comunista Gian Carlo Pajetta guidò un vasto gruppo di partigiani all'interno dell'edificio [la Prefettura di Milano], occupandolo. Si afferma da più parti che Pajetta […] telefonasse dapprima a Scelba al Viminale, quindi alla direzione del PCI per informare il segretario nazionale che il partito controllava la prefettura. Si dice che Togliatti rispondesse ironicamente: «Cosa intendete farne»? e che negli anni seguenti abbia continuato regolarmente a chiedere a Pajetta: «Quante prefetture abbiamo?», oppure «E oggi quante prefetture hai preso?», o ancora «Pajetta, come va la rivoluzione?».1
Questo ha un ruolo, è funzionale, riesco ad inquadrarlo. Nel caso polacco la risata era un coltello, nel caso italiano uno schiaffo. Nel caso polacco lo spirito era effettivamente l’unico interlocutore sensato al quale rivolgersi, considerando che era l’unica cosa rimasta ai polacchi. Lo spirito era un’arma. Nel caso italiano, invece, se nel 1947 i comunisti si fossero messi ad occupare Prefetture a destra e manca la situazione sarebbe sfuggita di mano ed il Paese sarebbe ripiombato nel baratro, nella guerra. La risata era un rimettere al proprio posto un compagno troppo intraprendente e infiammabile. La risata rispetto ai processi storici è funzionale, è essa stessa agente storico, e per questo la inserisco in uno schema. Il tempo di scriverci il pezzo d’esordio di questo progetto, il tempo di rinchiuderla in uno schema e quindi una gabbia e già mi ero rotto le palle.
Come spesso accade nella mia vita le sensazioni più belle, quelle di disorientamento, sono regali di gente che fa Herzog di cognome. Solitamente succede con Werner, a questo giro con il figlio. Un giorno stavo guardando Laughing with Hitler, un documentario del 2007 diretto da Rudolph Herzog e uscito in inglese per la BBC. Quel giorno ho capito di non aver capito granché della risata nella storia e della risata in funzione della storia. È stato un bel giorno.
Il giorno che ho visto Laughing with Hitler, e poi quello nel quale ho letto Dead Funny: Telling jokes in Hitler’s Germany2, sempre di Rudolph Herzog e sempre sul tema, è stato il giorno che ho ripreso in considerazione la risata e l’ho sottratta a tutti gli schemi del mondo. Gli studi di Herzog, che si concentrano sulle battute che circolavano tra i tedeschi nel Terzo Reich e che avevano come protagonisti i volti più conosciuti del nazismo, si rifanno ad una serie di fonti interessanti: “interviews with people who lived though the Third Reich, among them the friends of a Protestant pastor who was murdered by the Nazis, the son of a famous comedian and animal trainer, and a well-known German cabaret artist, […] biographies of prominent German humorists and the various collections of “whispered jokes” that were published in the immediate aftermath of World War II”3.
L’analisi di quelle battute, alle quali il tempo ha prosciugato ogni goccia di comicità (si tratta di un umorismo “stale, superficial and sedate”4 che oggi non farebbe ridere nessuno. Letteralmente Friends ma almeno non partono le risate finte quando le leggi), ci restituisce finalmente una risata senza funzionalità e senza schemi. La risata del popolo tedesco in quel determinato periodo storico è una risata che vive nella storia ma non interagisce con questa, annichilendo il suo ruolo di agente storico. Per Rudolph Herzog è chiaro fin dall’inizio che, con alcune eccezioni, l’umorismo “sussurrato” e apparentemente anti-nazista non era in alcun modo una forma di resistenza, bensì una valvola di sfogo di un popolo assoggettato. Il regime nazista riteneva le battute sui propri leader, quasi tutte battute che si concentravano su difetti caratteriali, fisici o pettegolezzi, in una qualche maniera funzionali al proprio potere, e infatti erano puniti molto blandamente. Fino a quando la Germania iniziò a perdere la guerra ed i bombardieri inglesi e americani arrivarono fino a Berlino. A quel punto non esisteva alcuno spazio per lo sfogo e per la risata, ed è a qui che questa storia conosce i propri martiri. Gli attori Fritz Muliar e Robert Dorsay, ad esempio, o il prete Joseph Müller, morto per aver raccontato la storia di un uomo che decide di morire con le foto di Goebbels e Hitler a fianco perché così può morire come Gesù (ovvero accanto a due ladroni), o Marianne K., donna della quale sappiamo solo che fu fucilata per aver raccontato a lavoro che
Hitler e Goering sono sulla torre della radio di Berlino. Mentre guardano soddisfatti la folla sotto di loro Hitler dice che vorrebbe tanto fare un qualcosa che stampi sui loro volti un sorriso. Goering risponde allora: “Perché non ti butti?”5
Il fatto che gente ci sia morta ci obbliga a prendere la cosa sul serio, a dare valore alla sua insignificanza storica (non erano germe di rivoluzione e non erano controllo del potere) per riflettere sulla loro essenza di istinto umano inestirpabile perfino per i più grandi estirpatori della storia dell’umanità. Nelle riflessioni delle altre puntate ci siamo domandati il valore storico ed il ruolo nella storia di tante cose, tra le quali il programma spaziale zambiano, e come dobbiamo comportarci di fronte a queste battute che processiamo come anti-naziste solo per caso. Werner Finck, un famoso cabarettista tedesco che venne rinchiuso sei settimane in un campo di concentramento proprio per quelle battute, quando parlò di nuovo del fatto ammise candidamente che “io non ero contro i nazisti, loro erano contro di me”6.
Si è provato a fare un uso politico di queste battute, a renderle effettivi agenti storici, a presentarle come sintomo di una sotterranea avversità dei tedeschi al regime. Resistenza. Non fu così, e anzi: i riferimenti ai campi sono tantissimi, cosa che si scontra con la comoda convinzione popolare che “i tedeschi non sapevano”. Però i martiri di quelle risate rimangono vittime della scomoda circostanza d’essere umani in un contesto di negazione dell’umanità, e per questo ci hanno rimesso la pelle. Anti-nazisti per l’istinto irrefrenabile al riso più che per ideologia, cosa che ce li fa apparire puri perché in diretto contatto con la nostra natura. Noi siamo naturalmente portati a ridere di o con Hitler, non ad opporci ad Hitler. Non è confortante, ma almeno è umano. Almeno possiamo tracciare un qualche tipo di linea tra noi e loro, renderceli un po’ più avvicinabili.
Questa storia mi ha insegnato che io, se fossi stato tedesco negli anni ‘30 in Germania, non è per niente sicuro che sarei stato un anti-nazista. Che sarei stato disposto a morire in un carcere pur di essere dalla parte giusta della storia. Non lo hanno fatto tanti e tante che si sono trovati in quella situazione prima di me, quindi non vedo perché dovrei avere la presunzione di pensare che io sarei stato diverso. Ma è sicuro che se fossi stato tedesco in Germania negli anni ‘30 come lo è stato Fritz Peter, persona magica che tra le altre cose aveva uno scimpanzé in casa, avrei insegnato a questo a fare il saluto nazista al postino ogni volta che passava davanti casa mia, proprio come aveva fatto lui. Anche con la Gestapo che bussa alla porta, proprio come bussava alla porta di Peter.
Ma insomma, come si può fare una storia di cosa abbia significato il nazismo per i tedeschi7 senza fare i conti con la scimmia di Peter? Abbiamo idea di cosa ci stiamo perdendo? Solo eroi, solo grandi gesti, grandi sacrifici. Mai uno scimpanzé che saluta con il braccio teso un postino. Che palle.
P. Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura e politica dal dopoguerra ad oggi, Viella, Roma, 2015.
R. Herzog, Dead Funny. Telling jokes in Hitler’s Germany, Melville House Publishing, 2011, Brooklyn, NY. Edizione in italiano (che io non ho citato perché non c’è su libgen lol: R. Herzog, Heil Hitler, il maiale è morto! Ridere sotto Hitler: satira e comicità nel Terzo Reich, Kowalski, Milano, 2007.
R. Herzog, Dead Funny, op. cit.
R. Herzog, Dead Funny, op. cit.
G. Macnab, Rudolph Herzog: Punchlines from the abyss, in theguardian.com, 25 maggio 2011. Tra l’altro da piccolo ne conoscevo una versione identica con Berlusconi e Fini.
Finck ne parla nel suo spettacolo Kritik der reinen Unvernunft. Autobiographie eines Kabarettisten (1947), registrato ma purtroppo mai digitalizzato. Herzog ne parla nel documentario.
Una lettura decisamente più solida di questo post è: W. S. Allen, Come si diventa nazisti, Einaudi, Torino, 2014.